Nel fine settimana Donald Trump ha proposto, nella sorpresa generale, di trasferire la maggior parte dei palestinesi della Striscia di Gaza nei paesi arabi della regione, in particolare in Egitto e Giordania. Il presidente degli Stati Uniti ne ha addirittura parlato con i due capi di stato coinvolti, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il re di Giordania Abdallah II.
Come prevedibile, la proposta è stata subito applaudita dai due leader dell’estrema destra israeliana, il ministro dell’economia Bezalel Smotrich e l’ex ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir, dimessosi recentemente per protestare contro l’accordo per un cessate il fuoco a Gaza. I due non solo approvano l’iniziativa, ma chiedono l’espulsione dei palestinesi già da tempo.
Il fatto che una proposta simile sia sostenuta dall’estrema destra israeliana, favorevole alla ricolonizzazione di Gaza e all’annessione della Cisgiordania, non è affatto sorprendente. Meno prevedibile era che ad avanzarla fosse il leader della prima potenza mondiale. Ovviamente un trasferimento forzato sarebbe un crimine di guerra e un atto di pulizia etnica, oltre che un’idea giuridicamente, politicamente e moralmente insostenibile.
Perché Trump ha compiuto questo passo clamoroso? Il presidente americano ha appena ottenuto un grande successo diplomatico con il cessate il fuoco concluso tra Israele e Hamas, che ha permesso la liberazione dei primi ostaggi da oltre 12 mesi. Questo, però, significa anche che è coinvolto in un processo complesso. Nel fine settimana sono arrivati i primi ostacoli, quando le due parti si sono accusate a vicenda di non aver rispettato i termini del cessate il fuoco.
Da dove viene questa proposta, che senza dubbio susciterà le proteste dei palestinesi e del mondo arabo? L’idea è presentata come un atto di buon senso: la Striscia di Gaza è distrutta, dunque è giusto costruire nuove case per i palestinesi (altrove) e permettergli di vivere in pace. È il genere di ragionamento che circola negli ambienti dell’estrema destra in Israele, e a quanto pare anche nell’entourage del nuovo presidente statunitense.
Per i palestinesi la proposta di Trump è sconvolgente, anche perché riporta alla memoria un trauma storico, quello della Nakba (dall’arabo, la “catastrofe”) del 1948, quando i loro antenati furono costretti alla fuga dall’esercito del nuovo stato ebraico.
Un evento documentato e raccontato da molti storici israeliani, da Ilan Pappé a Benny Morris e a Tom Segev. I due terzi dei 2,4 milioni di palestinesi di Gaza discendono dai profughi del 1948, dunque sanno bene cosa sia l’esodo.
La proposta è anche un errore per l’effetto deleterio che potrebbe avere sul processo di scambio tra ostaggi e prigionieri. Se il dopoguerra porterà davvero un esodo forzato al posto di una soluzione politica, è ovvio che i palestinesi non hanno alcun interesse a rispettare un accordo di cui la seconda fase deve ancora essere negoziata.
Tra l’altro l’idea è assolutamente inaccettabile per l’Egitto e la Giordania, che non vogliono accollarsi il fardello dei rifugiati che potrebbero riversarsi nei due paesi, rischiando di destabilizzarli.
Oggi non esiste un solo leader arabo che sia nelle condizioni di avallare l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre, neanche il principe ereditario Mohammed Bin Salman, che nei piani di Trump dovrebbe spingere il suo paese verso gli accordi di Abramo con Israele. Ma il principe non può assumersi questo rischio.
Volendo essere generosi possiamo immaginare che il presidente statunitense si sia fatto suggerire un’idea pessima e senza futuro, che si perderà nel caos delle sue iniziative. Ma se davvero Trump crede a quello che dice ed è pronto a passare dalle parole ai fatti, sarà l’ennesimo segnale inquietante dell’avvento di un mondo basato sulla legge del più forte. E l’Europa, per quanto la sua voce sia ormai quasi inaudibile, deve assolutamente opporsi.
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