Sperimentare e competere: l’Italia e l’Europa cercano la loro strada

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Si dice che investire in ricerca clinica migliori le opportunità di cura per i pazienti e che per ogni euro investito in uno studio clinico se ne generino quasi tre in benefici per i servizi sanitari (in particolare per il nostro Ssn) e 3,5 se le sperimentazioni riguardano l’oncologia.

Professor Rasi, lei che è il coordinatore del Tavolo di lavoro sulla ricerca clinica dei farmaci e dispositivi presso il ministero della Salute, ritiene che l’affermazione sia esatta?

Secondo me è proprio così. C’è da aggiungere che il beneficio per il paziente è molto più in là del solo beneficio economico, perché partecipare al trial clinico significa avere su di sé un’attenzione, in termini diagnostici e non solo, molto più alta dello standard, per quanto sia buono, rispetto a chi non vi accede.

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Già nel rapporto Draghi, parlando di strategie per il rilancio della competitività europea, si sottolinea quanto sia importante il farmaceutico, che addirittura è uno dei dieci settori sui quali investire prioritariamente. All’interno di questa affermazione ci sono ben tre proposte che riguardano segnatamente ricerca, sviluppo e studi clinici. In particolare, il rapporto suggerisce di semplificare avvio e la gestione di trial multinazionali, aumentare e concentrare gli investimenti pubblici in ricerca e mobilitare gli investimenti privati. Partiamo dal primo punto: come semplificare gli studi clinici multinazionali?

L’Europa ha fatto un primo passo con l’introduzione di un sistema che dovranno usare tutti i ricercatori in tutti gli stati membri: un gigantesco workflow che si chiama Clinical Trial Information System (CTIS) che ha l’intenzione di uniformare le procedure riducendo le barriere locali agli studi multinazionali. In realtà adottare il CTIS si è rivelata un’impresa molto difficile.

È partito da qualche tempo e dal primo gennaio prossimo sarà obbligatorio. I problemi nascono dal tentativo che ciascuno dei Paesi dell’Unione ha fatto per adattare il sistema a quello che aveva già in casa (che in qualche caso non era nemmeno un sistema unico). Ne è venuto fuori un sistema poco friendly, che anche se sta migliorando di giorno in giorno non ha dato quello sprint che si pensava. Poi c’è il problema dei comitati etici.

In Italia il loro numero si è ridotto…

Sì ma rimangono comunque una prerogativa nazionale, difficilmente superabile, anche se comprensibile, che rappresenta comunque un elemento di disomogeneità in tutto il territorio continentale. Poi c’è la legge europea sulla privacy, il GDPR. Di fatto, dalla sua entrata in vigore, in pochi mesi ha allontanato fino al 30% di tutti gli investimenti in ricerca perché conteneva elementi sanzionatori che hanno spaventato gli sponsor, creando, tra l’altro oggettive difficoltà alla gestione della salute pubblica.

Ciò perché senza dati il decisore amministrativo o politico sanitario ha meno elementi per prendere decisioni corrette e questo nella ricerca clinica ha avuto un effetto evidentemente immediato. Inoltre la ricerca, le conoscenze mediche, la medicina molecolare sono andate molto avanti, le malattie “tradizionali” in realtà sono molto più eterogenee di quello che pensavamo, definite in base a caratteristiche molecolari che ne restringono il campo e le popolazioni da studiare sempre più frammentate.

Qualche esempio?

Il diabete non è più una malattia singola ma un insieme di almeno una decina di malattie diverse che hanno alcuni o molti elementi in comune. Per tale motivo reclutare pazienti per un trial in tempi brevi diventa sempre più difficile. L’unico modo è coinvolgere tanti centri contemporaneamente, attivando trial multinazionali, multicentrici e l’arruolamento non può che essere competitivo.

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A questo punto è chiaro che ogni difficoltà burocratica locale porti inevitabilmente a una perdita di efficienza e di efficacia a favore di altri territori. Gli Stati Uniti, sono notoriamente molto sburocratizzati e hanno oltretutto un unico centro di riferimento che è il NIH mentre noi per ottenere un’autorizzazione dobbiamo riferirci a 27 autorità. E poi c’è l’Asia che anche per motivi non sempre eticamente accettabili, deregolamenta molto e arruola di più. Morale della favola, il recente rapporto Efpia certifica che l’Europa sta perdendo continuamente competitività e attrattività per la ricerca clinica.

Ne parliamo tra un attimo. Intanto, tornando al rapporto Draghi, il secondo punto era aumentare e concentrare gli investimenti pubblici in ricerca. Si può fare o no?

Si può e si deve fare. Anche perché è stato dimostrato da Covid che serve massa critica e che solo un intervento pubblico può coagularla. In Europa manca un’autorità centrale, come già quella regolatoria (l’Ema, n.d.r.), che possa veramente creare una massa critica di ricercatori che a sua volta consenta all’innovazione di andare avanti.

Nel concreto cosa dovrebbe fare una simile autorità centrale?

Per esempio prendere decisioni ‘top-down’. Durante la pandemia, Ema chiese alla Commissione europea di mettere a disposizione alcuni fondi destinati alla ricerca per i primi farmaci in uscita. La risposta fu “sì, adesso faremo un bando perché tutti possano accedere”.

Così non va bene: la logica secondo cui tutto debba essere ‘bottom-up’, tutto… democratico non va d’accordo con la ricerca. Che non è democratica. Ci sono emergenze e necessità di salute pubblica individuate dalle istituzioni e i soldi si devono poter mettere su quelle. Poi la selezione di chi se ne occupa, ovviamente, deve seguire criteri di eccellenza.

Un altro aspetto riguarda lo sviluppo di un partenariato pubblico-privato più agile. Nel mondo anglosassone la formula esiste e potremmo copiarla senza dover reinventare la ruota: la zona di interferenza da noi è molto temuta mentre lì è ben definita e funziona.

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Ha citato poco fa il rapporto Efpia, secondo cui, nonostante le sperimentazioni cliniche globali siano aumentate del 38% negli ultimi dieci anni, nello stesso periodo, si sono dimezzate all’interno dello Spazio economico europeo. In particolare quelle sponsorizzate sono passate dal 22% del 2013 al 12% del 2023. Il tutto si traduce in 60 mila pazienti in meno che accedono a una sperimentazione che coinvolga un Paese europeo. Da quanto detto finora non ne sarà sorpreso, ma queste dimensioni se le immaginava?

Sì, mi era chiaro anche perché avevo un punto di osservazione privilegiato, ovviamente sia prima da direttore generale dell’Ema, sia adesso coordinando il Tavolo ministeriale che mi consente di continuare ad analizzare la situazione.

Quella della privacy non è migliorata, quindi non si è tolto il blocco e le resistenze di cui parlavo prima rimangono. C’è una grande frammentazione nelle legislazioni. Pensiamo a una ricerca che metta insieme un device, un farmaco e che usi le app. La Fda s’è attrezzata da anni per validare le app e gestisce i devices in maniera centralizzata al proprio interno.

Negli Usa un trial complesso ha già tutta una normativa coerente, mentre le nostre normative hanno buchi, sovrapposizioni e conflitti: non si sa quali regole utilizzare. Pensiamo per esempio a tutta l’area della genetica: le nostre leggi sono fatte per gli Ogm concepiti per l’ambito alimentare. Le pare che dobbiamo navigare in mezzo a norme fatte per altri scopi? Quindi alla frammentazione si accompagnano almeno tre elementi negativi: duplicazione, gap e contraddizioni.

Parliamo di Asia e di Cina in particolare. Nello stesso periodo in cui prendiamo atto del numero di sperimentazioni dimezzato in Europa, quelle esplose in Cina hanno fatto guadagnare in quel Paese il 18% di tutti trial avviati a livello globale. Alcune ragioni ce le immaginiamo, lei quali altre intravede?

Intanto hanno una popolazione enorme e quindi proprio i numeri sono a loro favore. Secondo, hanno una determinazione a sostituirsi come baricentro di innovazione nel mondo. Sostituirsi o perlomeno raggiungere i livelli americani (gli europei ormai li hanno superati o li stanno superando e non è l’impresa più difficile). Terzo, probabilmente, una certa disinvoltura anche nell’arruolamento. E su questo aspetto noi potremmo far valere le nostre carte, basate sul rispetto rigoroso delle Good clinical practices. Questa è una cosa che dobbiamo valorizzare e non arretrare su tutta la parte burocratica. La Cina credo che abbia tutto l’interesse ad adeguarsi ai nostri standard. Non il resto dell’Asia, però, e nemmeno gli altri Paesi, anche gli africani, che non danno tutti le stesse garanzie per il paziente.

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Per migliorare il processo delle sperimentazioni cliniche europee, tra le proposte che si leggono nel rapporto Efpia, si parla del miglioramento dell’infrastruttura, di ridurre i colli di bottiglia come quello già citato della privacy, di perfezionare la preparazione dei siti e affrontare le limitazioni di personale. Cioè?

In Europa in genere e in Italia in particolare quasi tutta la sperimentazione viene fatta contemporaneamente alla routine clinica. Manca o è pochissima la cultura di dedicare personale, spazi, attrezzature etc. alla sola ricerca clinica. Che pertanto viene ‘compressa’ dentro l’attività quotidiana. In Italia questa è la regola. Del resto strutture dedicate solo alla ricerca clinica ce ne sono negli Stati Uniti e poche in Europa.

Un Paese europeo che viene additato come buon esempio è invece la Spagna. Le sue buone performances si dice siano costruite su un ciclo di adozione precoce delle politiche e sulla rapida adozione del Ctis, quindi con un forte coordinamento internazionale tra tutte le parti interessate. Sono queste le ragioni del successo? È dipeso dalle capacità di qualche direttore – che ho conosciuto e visto transitare nei dieci anni di Ema – che ha capito subito quale fosse la sfida. L’agenzia spagnola ha messo costantemente a disposizione personale di alto livello informatico nella costruzione di questo workflow (il Ctis n.d.r.), influenzandolo grandemente.

Ma soprattutto è stata da subito pronta a utilizzarlo perché i suoi uomini l’hanno in tutti i sensi costruito e indirizzato. Le si deve pure dire grazie, perché l’hanno fatto pro bono all’inizio – evidentemente – con una visione a lungo termine. E poi c’è stata continuità, sono cambiati i direttori, ma hanno mantenuto l’impostazione. In Italia abbiamo avuto ottimi tecnici che sono stati mandati un po’ a singhiozzo, però, senza una visione e senza capire che prodotto avremmo ricevuto indietro.

Tutti gli altri Paesi europei hanno remato per ritardare l’entrata in funzione della centralizzazione piuttosto che per renderla efficiente. La Spagna ha fatto il contrario: emanando un famoso regio decreto – a cui devo ammettere si ispira il nostro Tavolo della ricerca – che è alla sua ottava o nona revisione. Si potrebbe pensare che allora non funziona? Direi il contrario: vuol dire che il decreto contiene elementi di flessibilità per adattarsi a una materia che varia con rapidità enorme. Noi stiamo cercando di recuperare terreno, avendo quel modello. Vediamo se riusciamo ad andare anche oltre.

Venendo all’Italia, che spazio c’è per la ricerca indipendente in termini di condizioni e investimenti? Secondo Aifa in un solo anno, tra il 2021 e il 2022, nel nostro Paese gli studi clinici non sponsorizzati dall’industria farmaceutica sono passati dal 22,6% al 15% del totale…

Lo spazio ci sarebbe perché ci sono le fondazioni, la volontà e le iniziative di volontariato etc. Ci sarebbero secondo me anche le risorse quantomeno economiche. Manca l’infrastruttura, però. L’Aifa ha rilasciato le linee guida ferme da due anni. Ecco, senza la determinazione dell’Agenzia, ma anche grazie alla spinta del nostro Tavolo, probabilmente le linee guida sarebbero ancora congelate. La loro assenza ha pesato sul ritardo, perché chi vuole investire vorrebbe capire come e dove mettere i soldi. L’altro aspetto è che molte istituzioni identificano il no profit con il ‘no money’.

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Non è vero: la ricerca indipendente è finanziata e i costi sono necessariamente supportati da qualcuno. Quindi nell’ambito delle istituzioni, negli ospedali, negli ospedali universitari, negli Irccs dove si fa la ricerca clinica, questo dovrebbe essere ben presente. Accogliere quei costi significa ricevere esattamente gli stessi benefici, magari anche aggiuntivi, in termini di miglioramento di processi, procedure e gestione.

Si è sempre detto che i ricercatori italiani sono eccellenti, che pubblicano tanto, nonostante appunto l’infrastruttura sia scadente e le condizioni a contorno non ideali. Intanto, di ricercatori, ce ne sono abbastanza?

L’affermazione sull’eccellenza sta in piedi perché i numeri la sostengono e questo ci conforta. Avendo io diretto un centro clinico maggiore qui a Roma e lavorando per cercare di promuoverne altri nel pubblico, sono sorpreso da quanti ricercatori esistono perché il loro è un atto di eroismo.

Non è agganciato a nessun avanzamento di carriera, a nessun vantaggio se non la pubblicazione scientifica. In termini reali non c’è una carriera del ricercatore, non una formazione specifica, né tantomeno ‘simpatia’ da parte della sanità pubblica per chi viene visto come qualcuno che sottrae tempo alla routine clinica per dedicarsi a qualcosa tra il lobbistico e la scienza pura.

La cultura della sanità pubblica ancora è lontana. Anche se devo dire che negli ultimi dodici mesi ho notato segnali positivi. Secondo me, come al solito, i “buoni sentimenti” portano avanti il mondo… : il famoso moltiplicatore secondo cui un euro triplica quasi il beneficio sia per il servizio sia per la struttura che lo eroga, probabilmente ha aperto la sensibilità e trovo un grande interesse al dibattito. Speriamo che da questo si passi poi a qualcosa di concreto. Certo, deve essere supportata una normativa che faticosamente, ma con qualche risultato, stiamo portando avanti con il ministero.

In ambito strettamente accademico, che cosa si può fare per migliorare la progressione e le opportunità di carriera per un ricercatore?

Sicuramente a chi fa la ricerca clinica bisogna consentire spazi di tempo privilegiati. Deve essere valutato il fatto che la ricerca clinica sia qualcosa in più degli atti medici, dei Drg tradizionali.

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Dal punto di vista della sanità pubblica dovrebbe esserci una policy più specifica. Poi la carriera universitaria dovrebbe essere più incentivata: se pensiamo quanto è difficile diventare ricercatori e professori associati e quanti pochi benefici si associno a queste qualifiche, capisco il crescente disinteresse dei giovani medici a entrare nell’Accademia.

Diventare professore era una grande aspirazione e una molla di per sé. Ora questa magia sembra non esserci più. Ma il tema merita un discorso a parte.

Ci sono ambiti privilegiati su cui conviene oggi indirizzare la ricerca clinica?

Sicuramente, soprattutto se si investono soldi pubblici, bisognerebbe andare verso gli unmet medical needs. Penso per esempio al carcinoma del pancreas, per il quale oggi non c’è cura.

E poi all’antibiotico-resistenza: nel G7 della Salute sono state fatte dichiarazioni importanti e indicate le prime risorse alle quali deve seguire una costante e strutturale allocazione.

Di certo in questo ambito la sperimentazione serve anche all’Italia, che paga un tributo molto alto (12 mila decessi l’anno legati alla resistenza anti microbica, n.d.r.) e potrebbe essere particolarmente beneficiata da eventuali innovazioni.

Composizione e obiettivi del tavolo ministeriale

Il “Tavolo di lavoro in materia di ricerca clinica con farmaci e dispositivi medici per uso umano” è stato istituito da un decreto del ministero della Salute il 5 aprile scorso. Lo coordina il professor Guido Rasi, già direttore generale dell’Agenzia europea del farmaco (Ema), in qualità di esperto nominato dal ministro Orazio Schillaci.

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Del Tavolo fanno parte:

  • Roberta Pellegrini, Clinical trial center Policlinico Gemelli di Roma (segretario);
  • Maria Rosaria Campitiello, Capo della segreteria tecnica del Ministro;
  • un rappresentante dell’ex Direzione generale dei dispositivi medici e del farmaco;
  • un rappresentante dell’ex Direzione generale della ricerca e dell’innovazione in sanità;
  • Sandra Petraglia, dirigente Area Pre-Autorizzazione di Aifa e delegato italiano al Clinical Trial Coordination Group (Ctcg);
  • Carlo Petrini, presidente del Centro di coordinamento nazionale Comitati etici e del Comitato etico nazionale Enti pubblici di ricerca, nonché Direttore dell’Unità di Bioetica dell’Istituto superiore di Sanità;
  • Patrizia Popoli, direttore del Centro nazionale per la ricerca e la valutazione clinica e preclinica dei farmaci, Istituto Superiore di Sanità;
  • Diego Alejandro Dri, membro del Clinical Trials Information System (CTIS) expert Group e stakeholders Group e coordinatore in Aifa dell’organizzazione per conto dell’Italia per la gestione delle sperimentazioni cliniche in CTIS;
  • Milena Fini, direttore scientifico dell’Irccs “Rizzoli” di Bologna;
  • Gennaro Daniele, direttore UOC Fase 1 della Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” Irccs;
  • Roberto Poscia, dirigente responsabile della Struttura tecnica Unità di ricerca Clinica e Clinical competence e direttore Centro interdipartimentale delle malattie rare- Aou Policlinico Umberto I di Roma;
  • Paola Rogliani, ordinario di malattie dell’apparato respiratorio presso l’Università degli Studi di Roma, Tor Vergata;
  • Claudia Santini, Assessor senior di sperimentazioni cliniche ed esperta per le terapie avanzate di Aifa;
  • Ilaria Bolcato, responsabile delle Segreteria tecnico- scientifica del Comitato etico Verona Rovigo; Un rappresentante di Farmindustria;
  • Federico Viganò, in rappresentanza di Federchimica;
  • Fabrizio Galliccia, dirigente dell’Ufficio Ispezioni Gcp di Aifa;
  • Pietro Calamea, direttore dell’Ufficio 6 dell’ex Direzione generale dei dispositivi medici e del farmaco, ministero della Salute;
  • Marco Greco, presidente dell’European Patient’s Forum e rappresentante delle associazioni pazienti nel cda dell’Ema

Gli obiettivi del tavolo sono:

  • elaborare proposte di revisione della normativa esistente in materia di ricerca clinica con farmaci e dispositivi;
  • individuare azioni di miglioramento per facilitare la buona riuscita degli studi clinici e di ricerca clinica mediante la collaborazione con le istituzioni interessate;
  • redigere linee d’indirizzo per ottimizzare le interazioni tra le strutture di supporto alla realizzazione degli studi clinici;
  • ideare strumenti volti a facilitare il coinvolgimento e la tutela dei pazienti nella ricerca clinica con farmaci e dispositivi.

Un seminario per promuovere la ricerca: appuntamento a Roma

La ricerca farmaceutica come driver di competitività e la semplificazione dei processi per anticipare l’accesso all’innovazione sono al centro di un seminario organizzato da AboutPharma – in collaborazione con il Tavolo di lavoro in materia di ricerca clinica con farmaci e dispositivi medici per uso umano del Ministero della Salute – in programma a Roma ad aprile prossimo.

L’obiettivo è affrontare, attraverso un confronto multistakeholder, le principali complessità del nostro sistema di ricerca e sperimentazione e avanzare proposte concrete di revisione della normativa esistente. Si rivolge a tutti gli attori a diverso titolo coinvolti negli studi clinici: ministeri, Istituto superiore di sanità, università, centri di ricerca, Irccs, comitati etici, società scientifiche, associazioni dei pazienti e pazienti esperti, imprese farmaceutiche e di dispositivi medici.



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