Svuotato e stravolto: questo è l’esito del passaggio nelle Commissioni lavoro e finanze della Camera per il disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalla Cisl sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Un testo che esce amputato del suo nucleo centrale, e cioè il ruolo della contrattazione.
Nelle parole del suo segretario generale, Luigi Sbarra, la Cisl proponeva «una legge non obbligatoria, (…) con il compito di incentivare (…) e valorizzare la contrattazione collettiva nazionale e di secondo livello».
Una proposta proprio per questo «inaccettabile» per Confindustria, secondo il cui vicepresidente Maurizio Marchesini «non è vero che la partecipazione prevista sia volontaria, perché se tutto nasce dalla contrattazione e quindi da un conflitto non c’è una reale libera scelta dell’impresa».
Ebbene, alla fine ha vinto Confindustria: dopo le modifiche in Commissione, nel testo che arriva in aula lunedì 27, la partecipazione c’è, ma solo se la concede l’impresa.
Saranno gli statuti (che sono approvati dall’assemblea dei soci) e non la contrattazione ad avere la parola decisiva sulla partecipazione dei lavoratori ai consigli di sorveglianza o ai consigli di amministrazione. Come, peraltro, è già possibile a legislazione vigente.
È stato inoltre tolto l’obbligo di prevedere la partecipazione nei consigli di amministrazione delle società a partecipazione pubblica, perché il Mef teme che la presenza dei lavoratori nei cda possa essere di ostacolo alle privatizzazioni, a partire da quella di Poste. E poi sarà l’assemblea dei soci a scegliere i rappresentanti dei lavoratori in caso di loro sostituzione, di modo che non si capisce come si possa continuare a chiamarli “rappresentanti” dei lavoratori.
La contrattazione non potrà prevedere neppure la partecipazione finanziaria, su base volontaria, dei lavoratori al capitale delle imprese. Se la prevederanno, le imprese non avranno nessun obbligo di farlo in forme non discriminatorie.
Saranno sempre le imprese, non i contratti collettivi, in contrasto con quanto già avviene, a potere promuovere la partecipazione organizzativa, con commissioni paritetiche che si occupino di innovazione nei prodotti, nei processi produttivi e nell’organizzazione del lavoro.
Viene infine completamente smontata l’architettura della partecipazione consultiva, che nel ddl originario prevedeva un obbligo, ora divenuto facoltà, di consultare le rappresentanze dei lavoratori almeno una volta all’anno. Una scelta in pieno contrasto con la disciplina comunitaria, come recepita dal d.lgs. 25/2007, che sancisce il diritto all’informazione e alla consultazione da parte dei lavoratori.
E che già prevede che «i contratti collettivi definiscono le sedi, i tempi, i soggetti, le modalità ed i contenuti dei diritti di informazione e consultazione riconosciuti ai lavoratori». Questa previsione viene ora irrigidita, come già lo era nel ddl Cisl, limitando la scelta dei soggetti alle sole commissioni paritetiche.
È inoltre soppressa la consultazione preventiva e obbligatoria prevista per banche e servizi pubblici essenziali, così come per le pubbliche amministrazioni.
Viene nel contempo ridicolizzato il ruolo della prevista Commissione nazionale: doveva intervenire in caso di controversie, ma viene lasciata senza poteri effettivi e chiamata ad elaborare dati che le imprese non sono più obbligate a inviare. Soppresso anche il Garante della sostenibilità sociale delle imprese.
Con una riformulazione di un emendamento, proposta dai relatori all’ultimo momento, si consuma poi un ulteriore pesante affondo alla contrattazione sindacale: ai contratti di riferimento individuati dal ddl Cisl in quelli siglati dai sindacati “comparativamente” più rappresentativi, si affiancano quelli siglati dai sindacati “maggiormente” rappresentativi.
Un concetto già bocciato da pronunce della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato, la cui introduzione costituisce l’ennesimo tentativo di questa maggioranza di indebolire la rappresentanza dei più importanti sindacati, fra cui proprio la Cisl, per favorire invece le organizzazioni sindacali con meno iscritti e meno presenti nelle rappresentanze sindacali sui posti di lavoro.
I sostenitori del ddl così brutalmente storpiato sottolineano i 71 milioni messi a disposizione, per il solo 2025. Ma il ddl Cisl ne prevedeva 50 a regime e li prevedeva per una complessa architettura di incentivi alle diverse forme di partecipazione che è stata ampiamente smantellata.
La maggior parte dei 71 milioni serve ad aumentare, da 4 a 5mila euro, per il solo 2025, e solo nel caso di distribuzione di una implausibile quota di utili almeno pari al 10 per cento, l’ammontare massimo di utili distribuiti ai lavoratori, ai quali è riconosciuta già oggi, una tassazione sostitutiva del 5 per cento.
I fondi residui sono invece destinati a una inedita agevolazione fiscale, sempre per il solo 2025, a favore dei dividendi distribuiti su azioni attribuite ai lavoratori in sostituzione dei premi di risultato.
Una sostituzione forse appetibile per i lavoratori che possono rinunciare alla monetizzazione dei premi, perché hanno retribuzioni robuste, ma certamente rischiosa per quelli con basse retribuzioni, che vedrebbero vincolati ai destini della società in cui sono occupati sia il loro futuro lavorativo sia il destino del capitale investito, senza avere avuto alcuna voce in capitolo per potere evitare esiti negativi.
Un’altra via sarebbe stata possibile. Il ddl Cisl poteva essere rafforzato, come il Partito democratico aveva proposto nei suoi emendamenti, in due direzioni. Andava innanzitutto chiarito che i rappresentanti dei lavoratori negli organi di gestione e nelle commissioni bilaterali devono essere individuati attraverso il canale sindacale.
E bisognava riconoscere a questi rappresentanti poteri effettivi come, ad esempio, quello di chiedere la convocazione delle commissioni bilaterali quando ne ravvisano la necessità, anche a fronte di riscontrate criticità nell’organizzazione, o di esigenze di informazione e consultazione.
Prevedendo inoltre che la mancata convocazione, quando richiesta, sia sanzionata come comportamento anti sindacale. Proposte puntualmente bocciate da maggioranza e governo. Tal che della “partecipazione” è rimasto soltanto il titolo.
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