L’editoriale/ Perché la svolta di Fiuggi è attuale

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Sono trascorsi trent’anni dalla nascita, nel gennaio 1995, di Alleanza nazionale e ancora ci si chiede quanto quel passaggio, che segnò la scomparsa nominale dalla scena politica ufficiale del nostalgismo mussoliniano, sia stato sincero, sofferto e meditato. Maquillage opportunistico o cambiamento reale? 
Chi opta, ancora oggi, per l’ipotesi della messa in scena, operata da Gianfranco Fini con la scusa dell’avvicendamento generazionale e sfruttando il nuovo clima prodotto dalla discesa in campo di Berlusconi dopo il crollo della Prima Repubblica partitocratica, è costretto a dimenticare quanto l’aspirazione a lasciarsi alle spalle l’eredità vieppiù insostenibile del fascismo fosse in realtà antica in quella destra che sulla carta si limitava a coltivarne la memoria.
Il tentativo di costituirsi come partito moderato o forza d’ordine, in chiave di conservatorismo anticomunista, provando così a mettere in cantina simboli e parole d’ordine del Ventennio, aveva ad esempio impegnato la lunga segreteria di Arturo Michelini, alla guida del Msi dal 1954 al 1969.
Nei primi anni Settanta fu lo stesso Giorgio Almirante, che pure di Michelini era stato il più strenuo antagonista, a tentare un’interlocuzione organica, attraverso la creazione della Costituente di destra, con ambienti monarchici, cattolici e liberali, avendo come collante la paura per l’avanzata elettorale delle sinistre.
Venne poi Democrazia nazionale: prima corrente interna, poi sfortunato partito nato da una traumatica scissione nel gennaio 1997, sempre con l’idea di far nascere anche in Italia una destra sganciata dal fascismo, ovvero capace di consegnarlo alla storia.  
Operazioni rivelatesi elettoralmente poco efficaci e nel complesso premature per almeno due motivi: il peso ineliminabile di certe esperienze e memorie ideologiche per uomini che quasi tutti s’erano formati durante il regime e, in particolare, nella sua stagione più tragica, quella di Salò: il fatto che la sopravvivenza di un ghetto nostalgico se era consolante per chi lo abitava era paradossalmente utile, alla stregua di uno specchio rovesciato, anche per rafforzare l’identità di una Repubblica nata certo dalla resistenza e dall’antifascismo, ma sempre attraversata al suo interno da non pochi conflitti e lacerazioni.
Solo nel 1995, con il crollo traumatico del vecchio sistema dei partiti e delle culture politiche che lo sostenevano, si crearono finalmente le condizioni giuste perché anche la destra, rimasta sino a quel momento in bilico tra movimentismo e doppiopetto, tra sentimentalismo e realpolitik, tra nostalgia e paura del futuro, cambiasse natura.
Dunque, sì, Alleanza nazionale – destra che si voleva europea, nazional-conservatrice, liberale, al limite persino antifascista – fu un fatto politicamente innovativo, non un passaggio trasformistico. Un punto di non ritorno, anche se nel suo cammino non sono poi mancate ambiguità, lentezze e incidenti di percorso. Sino a quello fatale (anche se è facile dirlo col senno di poi): l’autoscioglimento nel contenitore del Popolo della libertà trascurando il fatto che il Berlusconi sdoganatore della destra s’era nel frattempo messo in testa di fagocitarla e di trasformarla da alleata in minoranza irrilevante.
 Nacque allora, nel 2012, mentre Gianfranco Fini si avviava alla scomparsa dalla scena pubblica, immeritatamente ingloriosa, insieme alla sua ultima creatura, Futuro e libertà, il nuovo partito della destra, Fratelli d’Italia: una scelta di sopravvivenza contro il disegno egemonico del Cavaliere ma arrivato nel frattempo dove sappiamo. 
Ne nasce la domanda, a maggior ragione nel trentennale di Alleanza nazionale. Quest’esperienza o esperimento quale eredità ha lasciato alla destra che ne ha preso de facto il posto e che oggi si trova saldamente al governo del Paese? Giorgia Meloni ne ha ripreso in qualche modo il progetto, puntando a sua volta a creare una destra nazional-conservatrice estranea alle sirene del radicalismo, oppure ha operato, come alcuni dicono, un salto talmente brusco in avanti da somigliare a un pericoloso ritorno al passato? 
Su Fratelli d’Italia il mainstream giornalistico progressista sostiene due letture egualmente critiche. Da un lato, dopo averlo bollato a lungo come una scheggia del populismo nazionalista globale, ne fa oggi la variante periferica della tecnodestra trumpiana ultraliberataria e turbocapitalista che starebbe prendendo il posto del primo. 
Dall’altro lo considera un partito di destra radicale o estrema che se è divenuto elettoralmente appetibile e pubblicamente presentabile anche all’estero lo deve solo all’abilità mimetica della sua leader (divenuta europeista e atlantista, dicono i suoi critici, solo per convenienza). 
Si esclude insomma che l’agibilità politica della destra odierna, insieme ai suoi indubbi successi, abbiano qualcosa a che vedere con quel che è accaduto trent’anni fa, come se si trattasse di due vicende o traiettorie diverse e non di una comune storia di famiglia. Segnata, com’è normale in ogni famiglia, da cambiamenti e continuità, da rapporti di filiazione e da fratture.
Mettiamola così. Soggettivamente, la discontinuità tra An e Fd’I è evidente. C’era poco da riprendere dal Fini accusato di aver disgregato, per eccesso di personalismo e ambizione, la sua stessa comunità politica. Semmai era tutta da negare la sua visione di una destra che aveva il difetto di piacere troppo alla sinistra mediatica e poco ai suoi stessi elettori.
Ma oggettivamente, cioè in prospettiva storica e lasciando da parte idiosincrasie e rancori personali, è evidente che le cose stanno diversamente. Senza la rottura politico-simbolica con la propria ingombrante storia operata da Alleanza nazionale, il che significa la fuoriuscita per la destra italiana da una condizione di minoranza reietta e marginale a lungo coltivata e subita, oggi Fratelli d’Italia probabilmente non avrebbe il vasto consenso sociale che ha, superiore per certi versi ai suoi stessi voti. 
Quella che si è coronata con la vittoria del 2024, grazie va da sé anche all’oggettiva novità rappresentata da Giorgia Meloni e alle sue peculiari qualità politiche, è insomma un’aspirazione della destra a essere forza di governo coltivata per decenni. Ma per realizzarla servivano evidentemente una leader e un gruppo dirigente non più mentalmente prigionieri di un passato né vissuto né rivendicato. 
Ciò detto, trent’anni non sono passati invano, per la destra con per tutti gli altri attori. La politica nel frattempo ha radicalmente cambiato codici, moduli espressivi e forme. La comunicazione dei leader s’è mangiata ogni residuo di elaborazione dottrinaria. Il sano pragmatismo è divenuto tatticismo spesso cinico. Sono radicalmente mutati i rapporti di forza internazionali. Siamo entrati nell’era della virtualità alienante e della soggettività estrema. Il vero potere sta sempre più fuori dai luoghi istituzionalmente deputati. Il che significa che se si ritiene che la destra di oggi s0migli poco o nulla a quella che l’ha preceduta nel recente passato è solo perché il mondo nel quale ci muoviamo con crescente ansia ha poco o niente a che vedere con quello che abbiamo conosciuto appena l’altro ieri. Ma questo è un altro problema. Anzi, il problema. 

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