La terza grande guerra che ha insanguinato l’anno appena concluso, non ancora finita né purtroppo in procinto di farlo, è quella che nell’aprile 2023 è divampata in Sudan. Ne abbiamo già scritto qui in una precedente occasione. Merita tornarci perché occorre sottolineare, e non nascondere, la realtà di un pianeta nel quale sono attualmente in corso oltre cinquanta conflitti e non solo i due principali. Guerre meno mediatiche ma non per questo meno distruttive di vite umane, infrastrutture, case e, anche, di speranze. Quella speranza nel domani che dovrebbe essere la cifra di ogni popolo, di ogni essere umano e ancor più di ogni giovane. E che invece viene calpestata da spietate e per lo più insensate lotte per un potere spesso vacuo, limitato nel tempo e nello spazio.
Questa è esattamente la condizione del Sudan, grande stato africano che nell’aprile 2019 era uscito finalmente dalla lunga dittatura di Omar Hasan Ahmad al-Bashir ed era stato conseguentemente gestito da un governo di transizione guidato da Abdallah Hamdok, il Transitional Sovereignity Council (TSC) che fra enormi tensioni ha provato a reggere l’urto di un paese già stremato dall’esproprio delle sue risorse operato per anni dal suo despota, da un conflitto infinito nella regione del Darfur e dalla secessione della sua parte meridionale, costitutiva nel 2010 di una nuova nazione, il Sud Sudan, a sua volta tuttora instabile e preda di innumerevoli scontri etnici interni.
Nell’ottobre 2021, dopo soli due anni e mezzo, il TSC è stato abbattuto da un golpe militare condotto dai due generali Abdel Fattah al-Bahran e Mohammed Handan Dagalo detto Hemetti. Il primo divenuto così presidente del TSC, il secondo vicepresidente. I due a loro volta hanno convissuto più o meno armoniosamente solo per poco più di un anno, essendosi nel frattempo dotati di una propria autonoma forza militare: il Presidente con la Sudan Armed Forces (SAF), che sarebbe in teoria l’esercito regolare nazionale; il vice presidente con la Rapid Support Forces (RSF).
L’esito inevitabile è stato lo scoppio di una guerra civile nell’aprile 2023: un evento che sta ulteriormente stremando la disgraziata popolazione di quel disgraziato Paese, precipitata in una crisi umanitaria terribile: 13.000 morti accertati ma sono senz’altro di più; 8,7 milioni di sfollati senza ormai un luogo dove vivere; 2 milioni di profughi fuggiti nei vicini Ciad e Sud Sudan (circa un milione), e poi anche in Egitto (molti, circa 500.000) ed Etiopia (120.000) e finanche nella Repubblica Centrafricana (nazione fra le più povere al mondo) e in Libia; quasi l’intera struttura ospedaliera distrutta; oltre la metà della popolazione a rischio di morte per fame, senza aiuti alimentari che giungono con difficoltà data l’enorme insicurezza generale e dunque la pericolosità nel portarli per le organizzazioni internazionali di soccorso.
La guerra significa violenza imperante, torture, stupri, bambini reclutati a forza dalle milizie armate. Quasi azzeramento delle attività agricole nelle zone più fertili, e dunque, appunto, fame. E malattie. Un girone infernale nel quale potenze straniere cercano di incunearsi per trarre profitto dalla devastazione di un popolo. Egitto e Arabia Saudita sostengono e armano la SAF, gli Emirati Arabi fanno lo stesso con la RSF. Nel conflitto si è inserita anche la Russia, come sappiamo assai attiva in Africa: qui però in modo apparentemente schizofrenico, talché dapprima ha operato in supporto all’RSF e successivamente alla SAF, sulla base di un presunto accordo per il quale al-Bahran avrebbe garantito a Mosca di potersi insediare con una base navale sul Mar Rosso, la cui importanza strategica è fin inutile sottolineare.
Tutti questi interventi esterni naturalmente non sono gratuiti, ed infatti sono retribuiti spogliando il Sudan delle proprie ricchezze in oro e altri minerali di cui il paese è ricco. Il tragico paradosso che rende ancor più cruda la narrazione di una tragedia umana indicibile. Milioni di persone in lotta per la sopravvivenza, qualche decina di migliaia in lotta per un fragile potere, due individui in lotta per affermare il proprio ego e il proprio provvisorio potere. Questo è oggi il Sudan.
Dal punto di vista geografico diviso sostanzialmente in tre aree di influenza, forse più che di effettivo possesso: l’esercito regolare (SAF) controlla – più o meno – la costa del Mar Rosso con il porto di Port Sudan, la zona meridionale orientale e le rive del Nilo. I ribelli RSF presidiano il Darfur e larga parte della zona meridionale occidentale. E poi c’è una vasta area del Paese controllata da gruppi irregolari locali, non ascrivibili a nessuna delle parti in conflitto. Una situazione anarchica che coinvolge, infine, la capitale Khartoum – sette milioni di abitanti – devastata, spopolata, divenuta l’epicentro della crisi umanitaria e di quella politica. Poche luci all’orizzonte.
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