I curdi di Kobane abbandonati dall’Occidente: dieci anni fa la vittoria, ora i turchi li assediano

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Esattamente dieci anni fa le Unità di protezione del popolo (Ypg) e le Unità di protezione delle donne (Ypj) curde, insieme ai gruppi armati arabi della coalizione Vulcano dell’Eufrate e alle unità assire del Consiglio militare siriaco, liberarono la città siriana di Kobane dagli attacchi di Daesh sotto la guida di martiri e leggende della Siria rivoluzionaria come Faysal Abu Leyla e Musa Herdem “the Sniper”. Oggi celebriamo questo anniversario, patrimonio delle lotte storiche per nuove forme di socialismo ecologista, per la liberazione delle donne e per la fine dell’assoggettamento coloniale. Tale anniversario cade durante un nuovo tentativo di occupare la città da parte di forze islamiste. La differenza è che, stavolta, nessuno lo sa: i maggiori media sono silenti perché i governi europei non intendono disturbare i manovratori turchi e sauditi, che stanno imponendo al paese un regime oscurantista vassallo di Israele.

La realtà penetra tuttavia dai canali militanti delle forze sul terreno. I propugnatori di uno stato modo islamizzato, supportati da Damasco e Ankara, cercano di avanzare contro Kobane da quasi due mesi al prezzo di centinaia di morti. Stavolta a dirigerli non è un’organizzazione estranea al diritto internazionale come Daesh, ma un paese membro dell’Onu, secondo esercito della Nato e membro del Consiglio d’Europa come la Turchia. Tajani, Barrot e Baerbock si sono recati a Damasco, nelle scorse settimane, per offrire riconoscimento ad una delle tante componenti politiche del paese: la forza guidata da Al-Jolani, che dal 10 dicembre rafforza un governo monocolore (nero) e autoreferenziale nella capitale. Tale forza, benché riconosciuta dall’Europa, non rappresenta lo spettro molto più sfaccettato della rivoluzione siriana reale, e non controlla molto più di quanto nel paese controllasse Assad.

Questa investitura europea (in realtà un investimento per fare profitti sulla ricostruzione) si accompagna al mancato riconoscimento ufficiale della forza alternativa e multicolore che governa il nord-est: l’Amministrazione democratica autonoma (DAA) emersa dalla vittoria di Kobane del 2015, che nessuno Stato e nessuna organizzazione internazionale hanno mai riconosciuto. Il terrorista di ieri è oggi capo di Stato, ed ogni combattente per la libertà sa di poter divenire in fretta terrorista. Il supporto di Meloni e Tajani alla Siria che Al-Jolani sta imponendo da metà dicembre a suon di esecuzioni settarie, umiliazione delle minoranze religiose, svilimento dei programmi scolastici e marginalizzazione delle donne è tanto più grave se si considera che il paese, contrariamente a quanto ci si ostina a dire, è ancora in guerra.

Ogni giorno milizie filo-governative, supportate da forze turche di terra e d’aria, attaccano la DAA presso la diga di Tishrin, lungo l’Eufrate, con l’intento di raggiungere Kobane. I danneggiamenti della diga rendono possibile una catastrofe ecologica e lasciano migliaia di famiglie senz’acqua, ma le offensive vengono per ora respinte dalle stesse forze che sconfissero Daesh dieci anni fa. Nel 2014 i massacri compiuti da Daesh attrassero centinaia di giornalisti lungo il confine, e le pressioni del Pentagono indussero un riluttante Obama ad autorizzare sporadici bombardamenti il cui impatto, pur sopravvalutato, diede fiato a una controffensiva così potente da condurre le forze democratiche alla distruzione dell’intero “califfato” in cinque anni di guerra, durante i quali il ruolo dell’aviazione Usa, ma anche delle componenti arabe, aumentò di peso. Oggi sono le bande islamiste ad avere la copertura aerea di un esercito Nato, e quindi a beneficiare del supporto mediatico occidentale sotto la forma alternativa del silenzio.

In queste settimane, dopo lo sfollamento forzato di duecentomila persone tra massacri di intere famiglie, violenze sistematiche di genere (anche contro minori) e decapitazioni di donne, le bande dirette dalla Turchia hanno preso possesso di importanti città sulla strada per Kobane, scatenando il terrore nei quartieri, nelle scuole e persino negli ospedali. La controffensiva delle forze democratiche ha fatto parzialmente arretrare gli assalitori a Natale, e decine di migliaia di persone sono scese in piazza nella regione per supportare la resistenza di chi è al fronte, opponendosi al disegno accentratore e patriarcale di Al-Jolani e della sua ministra per gli Affari femminili, Aisha Al-Dibs.

Due settimane fa in migliaia, da tutta la DAA, hanno deciso di incamminarsi verso la diga di Tishrin ma l’8 gennaio l’aviazione turca ha iniziato a bombardare il flusso di civili inermi causando decine di morti e centinaia di feriti. Neanche questo ha meritato l’attenzione dei grandi media italiani o europei. Come quello a Israele durante la distruzione di Gaza, così il supporto europeo di fatto alla Turchia in Siria è ragione di vergogna per chi governa l’Italia e l’Europa.

Tra chi partecipa alla nuova resistenza per Kobane a Tishrin, tuttavia, ci sono anche internazionaliste italiane ed europee, e alcuni solidali internazionali sono già stati feriti. Si battono assieme a migliaia di siriani che, sui video di Telegram, cantano e danzano accanto alla diga per resistere con la forza di un incredibile entusiasmo ai bombardamenti aerei. Cantano e danzano negli stessi luoghi in cui poco prima hanno dovuto curare feriti o raccogliere cadaveri.

Se c’è una qualche forma di “superiorità” che io vedo nel mondo di oggi è questa; non quella di un’ipotetica, ipocrita e senile “civiltà occidentale”, né degli altri razzismi secondo cui lotte come quella di Kobane sarebbero “miti” o “mode” perché portano l’ibridazione rivoluzionaria là dove dovrebbe resistere una gerarchica, sempre coloniale, identità “pura”. La resistenza assorbe e produce mito, ma non è un mito. Kobane testimonia da dieci anni l’assenza di una cultura politica nel mondo che sia alla sua altezza. Testimonia della dignità – e necessità – di ogni tentativo autentico di colmare un simile vuoto.



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