Arrivano i nuovi Brics – Panorama

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Magari non sono popolari come i concorrenti del Grande Fratello, però a modo loro raccontano che siamo chiusi in una gabbia: quella del sistema economico inceppato con equilibri destinati a mutare in fretta. La partita si gioca soprattutto in Africa, lo scenario è un mondo deglobalizzato. Gli sceneggiatori di questo Truman Show sono Abhijit Banerjee, Esther Duflo – una coppia, anche nella vita, di studiosi del Mit – e Michael Kremer (Harvard), che hanno vinto il Nobel per l’economia in forza dei «loro studi sperimentali per affrontare il problema della povertà globale». È una sorta di ossimoro. Assegnare il Nobel a chi si occupa della povertà, vuol dire aver preso atto che il modello occidentale – capitale e democrazia – è al tramonto.C’è un altro signore ignoto ai più: Joaquín Alonso Vázquez. Si tratta del neoministro dell’Economia di Cuba, un Paese alla miseria, col turismo crollato del 7,9 per cento nell’ultimo anno, ormai al di sotto dei due milioni di arrivi. Anche Vázquez cerca una risposta alla povertà – il Pil pro-capite nell’isola è di 3.479 dollari all’anno – e l’ha trovata: entrare nei Brics, con la Cina pronta a investire per portare la sfida in casa degli Stati Uniti. Cuba ha aderito al sistema economico dal primo gennaio con Bielorussia, Bolivia, Indonesia, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda, Uzbekistan, che si aggiungono ai Paesi fondatori: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. L’Iran ha partecipato come osservatore all’ultimo vertice, a fine ottobre, a Kazan in Russia, dove Vladimir Putin ha cercato di trasformare il dialogo economico in un’alleanza strategica.

C’è un’attenzione occhiuta verso questo «cartello» anche da parte del presidente Recep Tayyip Erdogan (attenzione inquietante considerando che la Turchia ha il secondo esercito della Nato), così come ai Brics guardano con interesse i Paesi del Golfo. Donald Trump ha immediatamente proposto sia in Qatar sia in Oman – dove ha cospicui interessi personali: sta costruendo attorno alla capitale omanita Muscat alcuni resort di lusso – un rilancio degli investimenti americani. All’orizzonte di questo millennio si staglia dunque una sfida epocale. Non sono i dazi minacciati da Trump che stanno diventando un alibi per l’immobilismo europeo o per accordi – tipo il Mercosur – voluto da Ursula von der Leyen che sanno di ultima spiaggia. La sfida vera l’ha lanciata il nuovo consigliere globale Mario Draghi. Ha scritto: o l’Europa investe subito 800 miliardi all’anno e si convince che fare debito è indispensabile, o l’Unione è finita. Il modello – scrive Draghi – basato sullo sfruttamento della domanda estera e sull’esportazione di capitale con bassi livelli salariali non è più sostenibile. Altrimenti non ci resta che studiare la povertà. Perché nel mondo deglobalizzato ci sono altri attori protagonisti. Sono appunto i Brics, quel gruppo di nazioni che una volta si sarebbero detti «i non allineati» e che oggi sono i pianeti del «sistema solare» cinese. Sono in continua crescita sia economica sia demografica, stanno studiando un loro sistema di pagamento e vogliono elevare il renminbi (o yuan) – la divisa cinese – a moneta di scambio. Anche se l’India comincia a pensare che la sua rupia potrebbe avere da qui a breve ancora maggior forza. A dare un’accelerazione a questo attacco al sistema dell’economia globale basato sul dollaro, sono state le sanzioni imposte alla Russia. Il Cremlino, escluso dal sistema di transazioni globali Swift, sviluppato appunto con la divisa americana, ha chiesto all’alleato cinese di consolidare il circuito alternativo Cips (acronimo per Cross-Border Interbank Payment System) che è gestito dalla People’s Bank of China, è denominato nella valuta del Dragone (il renminbi) ed è supportato da 1.280 istituti finanziari del mondo, fra cui alcune banche giapponesi, russe e africane. Ma è solo un effetto collaterale: il «core business» di questa sfida è chi si accaparra le risorse minerarie ed energetiche, chi controlla i traffici e chi possiede le industrie per produrre. E soprattutto chi vende che cosa a chi. È bastato un quarto di secolo a Pechino per diventare – dal suo ingresso senza condizioni nella Woto, la World Trade Organization, l’11 dicembre 2001, deciso da Bill Clinton e sponsorizzato da Romano Prodi – da fabbrica del mondo a primo bottegaio. Il politico italiano agli albori del nuovo millennio era presidente della Commissione europea e disse ai cinesi: «Avrete nel rapporto con l’Europa davanti a voi un mercato di dimensioni enormi»…I dati parlano chiaro. A fronte di una stagnazione causata da crisi di domanda interna dovuta al debito di famiglie e bolla immobiliare, la Cina, per mantenere il tasso di sviluppo del Pil programmatoal 5 per cento, ha fatto due cose: tagliato i tassi (esattamente il contrario dell’Occidente) e ha sfogato il suo surplus produttivo aumentando le esportazioni. Nel 2024 la sua bilancia commerciale ha battuto ogni record. Dal 1993 esporta più di quanto importa e nell’anno appena concluso ha contabilizzato 990 miliardi di dollari di avanzo. Questo è accaduto perché si temono i dazi di Trump: ma mentre l’Europa s’interroga pensosa se Donald imporrà balzelli, i cinesi spingono al massimo la profittabilità.

Il contraccolpo in Europa è immediato: la Germania, che ha sempre avuto Pechino come primo cliente, non vende più (tant’è che il suo export è ai minimi dal 2023). I numeri dicono che le esportazioni tedesche verso i Paesi terzi sono crollate del 5,3 per cento, negli Usa del 12,2, in Cina del 3,8 e in Russia del 9,4 per cento. In queste condizioni, tutta l’economia europea frena. Ma c’è un altro dato che di rado viene preso in considerazione e invece indica come il Vecchio continente sia destinato al sorpasso da parte dei Brics. Nei 25 anni di permanenza della Cina nella Wto, l’Europa ha dimezzato la capitalizzazione di Borsa. Nel 2000 (includendo anche Londra) valeva il 34 per cento del mercato azionario globale, oggi appena il 14,5. Al contrario Wall Street è passata dal 50 al 66 per cento e tutto il resto è in mano ai Brics. I quali rivendicano un posto al sole. Da Kazan hanno fatto sapere: siamo mezzo mondo. Statistiche alla mano, i «non allineati» producono il 36 del Pil mondiale e muovono il 37 per cento del commercio. Nei loro confini vive poco meno della metà della popolazione del pianeta, circa 3,5 miliardi di persone su otto miliardi. Occupano una superficie complessiva di circa 40 milioni di chilometri quadrati e contribuiscono al 40 per cento della produzione petrolifera globale. Hanno superato il G7 e le loro economie – Cuba a parte – sono tutte in crescita. E possono fare da soli. L’Uganda – per dirne una – ha le maggiori riserve d’oro e tra un anno diventerà produttiva la miniera di Makuutu (il Paese ha enormi ricchezze minerarie) da cui si possono estrarre 126 mila tonnellate di ossidi di terre rare, comprese 86 mila tonnellate di neodimio e praseodimio. Per la Cina è un partner indispensabile. Ma egualmente si può dire della Thailandia, diventata un hub produttivo ad alta tecnologia per cui è attesa una crescita di Pil del 38 per cento nel prossimo quinquennio. Del pari la Malesia, che aumenta del 5 per cento all’anno grazie ai superconduttori e il boom edilizio ha messo il turbo al suo mercato finanziario. E se il Sud-est asiatico è la succursaleproduttiva della Cina, i Paesi del centro Asia sono la riserva di energia, mentre l’Africa è il serbatorio di altre materie prime comprese quelle agricole. Questa è la forza dei Brics e intanto che noi aspettiamo le decisioni di Trump, Nerendra Modi archivia – dato del Fondo monetario internazionale – una crescita del 7 per cento del Pil indiano nel 2024. Per un raffronto, la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde è soddisfatta perché l’Unione ha fatto +0,9 per cento. Chi si contenta…

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