L’ex operaio dice addio al comitato per le vittime: «Città senza memoria»

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«È una città senza memoria. Non ricorda i morti sul lavoro e quelli per malattie legate all’inquinamento, s’indigna solo quando accadono gli incidenti e poi ripiomba nel silenzio e nel suo torpore. È succube dei poteri forti, non ha orgoglio. Eppure, io ci ho provato a risvegliare le coscienze ma ora sono stanco. La mia prossima iniziativa a maggio sarà l’ultima». Cosimo Semeraro, 76 anni, ex lavoratore dell’Italsider di Taranto prima e dell’Ilva dei Riva poi, a cui è stata diagnosticata l’asbestosi nel 1999, patologia contratta per aver respirato le micidiali polveri d’amianto all’interno della grande fabbrica, racconta al Nuovo Quotidiano di Puglia la sua storia. È presidente del Comitato 12 giugno, fondata dopo l’incidente che nel 2003 costò la vita a due giovani operai del Siderurgico, il 24enne Paolo Franco di San Marzano e il 27enne Pasquale D’Ettorre di Fragagnano, travolti e uccisi da una delle gru usate per movimentare le materie prime del parco minerali. Grazie alla sua perseveranza in diversi comuni sono stati realizzati 13 monumenti, tutti uguali, dedicati alle vittime del lavoro dove tra i mesi di maggio e giugno vengono deposte corone di fiori.

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L’impegno

Dal 2013 allo scorso anno, ancora su iniziativa di Cosimo Semeraro, si è svolta a Taranto la giornata della memoria dedicata ai morti sul lavoro con corteo di barche da piazzale Democrate al quarto sporgente del porto in uso all’ex Ilva dove, il 28 novembre del 2012, perse la vita un operaio di 29 anni. Si chiamava Francesco Zaccaria: precipitò da una gru al passaggio di un tornado. Il suo corpo fu ritrovato due giorni dopo a circa trenta metri di profondità.  Semeraro, vedovo da 9 anni, ha due figli (uno vive a Taranto, l’altro a Venezia) e 4 nipoti. Fu assunto dall’Italsider nel settembre del 1971, all’età di 23 anni, con la qualifica di elettricista. I ricordi riaffiorano in maniera impetuosa. «Entrai come categoria protetta per via di un soffio al cuore. Ho lavorato in quello stabilimento per 29 anni anche se in realtà dovevo andar via prima per l’esposizione all’amianto, ma mi hanno ostacolato. Le fibre erano presenti nei soffitti e nei pavimenti delle palazzine, nei tubi corrosi, nelle mense, negli spogliatoi, nei capannoni e durante le lavorazioni si alzavano le polveri. Ho scoperto di aver contratto la malattia nel 1999 e da allora la mia vita è cambiata. La patologia mi provoca affanno, problemi respiratori e debolezza. Potrebbe trasformarsi in mesotelioma e ogni anno mi sottopongo a controlli». Semeraro, che già aveva chiesto i benefici per l’esposizione all’amianto nel 1995, presentò richiesta di prepensionamento. Prima ottenne il riconoscimento del diritto, poi il provvedimento fu revocato dall’Inail per problemi burocratici. L’allora direttore dell’istituto finì sotto processo con l’accusa di aver occultato (chiudendolo nell’armadietto personale) il fascicolo relativo alla richiesta di prepensionamento avanzata dal lavoratore e condannato in primo grado a 10 mesi di reclusione dal giudice monocratico Valeria Ingenito. In appello fu dichiarata la prescrizione del reato. A Semeraro, che ha lavorato nel Siderurgico fino al gennaio del 2000 nonostante avesse avuto diritto a conseguire il pensionamento di anzianità dal dicembre 1996, non restò che intentare la causa civile per ottenere un risarcimento.

Il caso

Il giudizio si è chiuso però in maniera beffarda. «Nel 2012 – confida l’ex operaio – il tribunale mi riconobbe un indennizzo di 10mila euro per danno non patrimoniale connesso all’illecito penale. Poi, incredibilmente, dopo che avevo presentato impugnativa per ricavare una cifra più alta, la Corte d’appello nel 2015 ha ritenuto il ricorso carente dichiarandolo inammissibile sostanzialmente per un vizio di forma e condannandomi a restituirne 18mila, cioè le spese giudiziali comprensive degli interessi, ovvero 9mila euro all’imputato (che pure era stato condannato nel processo penale, ndr) e 9mila all’Inail. Mi hanno pure pignorato la pensione. L’Istituto ha poi rinunciato alla pretesa del rimborso ma quello che accaduto è assurdo, insopportabile». Una vita spesa tra tribunali e ospedali. «Mi sono sentito abbandonato dallo Stato – ammette l’ex operaio – e ho avuto un crollo psicologico, finendo al centro mentale per la depressione, ho pensavo anche al suicidio».

L’esperienza in fabbrica? «Ho visto di tutto: dalla palazzina Laf dove venivano confinati i lavoratori ritenuti scomodi alle emissioni di fumi, polveri e gas agli incidenti e poi non dimentico gli sguardi degli operai». Nel 2003 la decisione di creare il Comitato 12 giugno in memoria delle vittime del lavoro, del dovere e del volontariato dopo la morte orrenda di due tute blu, all’epoca si chiamavano così. «Mi sembrava doveroso tenere alta l’attenzione innanzitutto sul fenomeno delle morti sul lavoro. Dicono che siano state più di 600 le vittime dall’inaugurazione dello stabilimento. E poi sulla diffusione delle malattie professionali, considerando che io stesso mi sono ammalato in quella fabbrica e ho subito tante ingiustizie». Le attività del Comitato hanno comunque raggiunto un obiettivo importante. «Il Tribunale e la Procura di Taranto – commenta Semeraro – hanno accolto la mia richiesta di riservare una corsia privilegiata per i processi per infortuni sul lavoro per evitare le prescrizioni. Le manifestazioni in ricordo dei morti sul lavoro rappresentano un richiamo alla responsabilità, in primis per i datori di lavoro e le istituzioni». Per Semeraro «il governo italiano deve capire, una volta per tutte, che o si garantisce la sicurezza e la salute dei lavoratori e dei cittadini o l’Ilva va chiusa».

L’ex operaio, da indomito condottiero, ora annuncia però che l’esperienza dell’associazione 12 giugno sta per concludersi. «Sì, non ce la faccio più fisicamente. La malattia – ammette – mi ha messo a dura prova, ma quello che fa più male è l’indifferenza della gente. Dico a tutti che dobbiamo impegnarci per un mondo del lavoro più sicuro e giusto, dove il rispetto per la vita umana sia sempre al primo posto». 





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