‘Non sono come voi volete‘, dice Amaia, ma attraverso un poetico gioco di riflesso di specchi e la mano dell’autore, che ha vissuto come operatore una vita fianco a fianco con le e gli ospiti di una comunità
Questo scritto nasce dalla condivisione con una vita disabile, Amaia, e la società in cui viviamo. Dall’emozione di un periodo intenso, della sua vita, vissuto assieme. Convivere con una condizione può essere, compresa, accompagnata, difesa radicalmente nella sua dignità esistenziale, ma è sempre una esperienza che deve fare i conti con una esistenza relegata, costretta ad essere “altra”, a non essere “normale”. La convivenza di questi anni con persone disabili o disabilitate, tante e diverse di cui ho un ricordo individuale, è stato un percorso segnato da luci, ombre, penombre.
Il luogo è stata una residenza per persone disabili con le quali ho vissuto dal 1979. Per me è stato cercare di capire, di entrare nel mondo dell’altra persona, o di stare ad ascoltare, comunicare. Immedesimarsi attraverso quelle porte che sono socchiuse. Condividendo momenti della quotidianità, gioia, rabbia, ironia, sarcasmo, dolore, apatia, che hanno costruito la conoscenza reciproca lasciando certezze affettive e anche incognite. Momenti che suggeriscono a posteriori, come io vivo le molteplici emozioni, lo sguardo, il silenzio dell’altra. Mettersi in gioco interpretando, interrogandomi. Lei è costretta a starci, qui, dal fuori e dal dentro, non ha potuto scegliere e io insieme ho provato a tendere ponti, a trovare sentieri, evitando strapiombi e vertigini. Ogni giorno è diverso. Le cadute non sono ormai il “Grande Problema”: è come rialzarsi e le ferite che lasciano ma anche l’orizzonte verso cui andare mentre cambiamo umanamente il luogo dove noi siamo.
Come penso tu pensi…
Mi posso accettare come sono? Mi hanno lasciato provarci? Si accanivano nel cercare di definire che io non sono come si dovrebbe essere. Io non ero come lei o come lui. Volevano che io fossi ciò che non ero. Non mi hanno lasciato essere unica e irripetibile. La strada che percorrevano gli altri, soprattutto a chi il caldo affetto mi dava piacere, non era la mia. Il bivio arrivò presto. Loro da una parte ed io dall’altra. Su una strada marcata, precisa che non aveva scappatoie, scorciatoie, sorprese.
Tutto era una sfida. Io dovevo starci per dimostrare che posso stare come…. “volete voi!!!”. E la mia vita è stata costellata dalla rincorsa a riparare me, che non funziono come dovrei, sempre…ospedali, visite, medici, infermiere, dietiste, reparti,…. Medicine quando consideravano che non ci stavo più dentro. Che non ero “gestibile”. Lasciatemi come sono. Lo dicevo fin da quando sentivo che sono, che esisto…
No. Non puoi essere come sei, tu puoi essere come noi crediamo che tu possa essere…
Integrazione dentro il “nostro” mondo, che non cambia perché qualcuno gli fa presente che c’è altro oltre la produttività, l’edonismo, la compassione, la tolleranza…
Condivisione reale magari aiuterebbe a starci. Condividere un cammino meno protocollato possibile. Dove possa percepire dentro di me la qualità della vita.
Quando sono felice quando mi entra questa gioia che mi fa sorridere con la pancia oltreché con il cuore so dire, trasmettere, “ti voglio bene” perché in quel momento voglio bene a me.
Dinanzi alla tomba di mia madre sembra che ritrovo il momento della nascita quando io sono io e mia madre è solo la madre natura che mi crea e aiuta a venire al mondo. Sì, sono io e mia madre non ha ruoli, non mi deve educare. Come facevo a non dirgli con le mie urla, con la rabbia, mamma perché te ne vai? Mamma come posso trovarmi, adesso, quando tu che sei stata su di me, quando non mi hai tolto l’attenzione, mai, se te ne vai? Quando tutti erano la, per darti l’ultimo saluto, piangendo, io no, mamma. Non piangevo perché ho pianto fuori e dentro tante volte che nessuno deve sapere. Io ero la regina della cerimonia, io consolavo, mamma, tutte e tutti. “ . La mia sofferenza non è stata celebrata. Non l’ho fatto intendere. Con la mia fronda fitta del linguaggio libero, dove le parole hanno il senso che “dico io!”. Solo a chi ho permesso di farmi conoscere lo aveva presente. Perché il tempo non farà si che tutto torni come prima. No. Senza mia madre nulla sarà come prima.
Mia madre è la. Ed io adesso vivo altro.
Ricordi; la casa; mio padre lontano; le mie sorelle che a volte mi chiedono ancora di essere quello che non sono perché sono le mie sorelle. Posso trovare un poco di pace? No? Allora nemmeno voi. Se non posso sognare nemmeno, voi potrete dormire tranquilli.
Voglio provare a scegliere. E mi dovete aiutare. Si, mi dovete perché io non ho chiesto di nascere e di essere quello che non sono. Adesso, il giorno trascorre molto senza rispetto perché io non ho avuto rispetto. Affetto si, ma rispetto no. Mi hanno capito? Io trovavo un luogo dove starci, brutto magari per voi, ma dove ci stavo con me e con gli altri. Ma non si poteva. Era solo una prova, un esperimento, l’ennesimo. Io non potevo scegliere.
Mi hanno lasciato scegliere solo poco fa. Nel laboratorio. Là, scelgo dove stare. Mi sento una volta all’anno la sensazione di poter scegliere, di vomitare anche a chi mi vuole bene il mio rifiuto provocatorio. Ma scelgo io. Come vivere le mie ore “produttive” (sic!). Mi sento tremendamente e caldamente costretta a pensare a me. Mi aiutano ad ascoltarmi. Mi pongono i limiti quando cerco di ritrovarmi, urlando la mia ansiosa ricerca. Perché altri possano fare il loro percorso senza farsi carico anche del mio.
Ma non riesco a starci, spesso. Proietto immagini di me, ruoli subiti, assenze, desideri, provoco voglio che mi guardate, vi sento in balia della mia rabbia. Reagite si, reagite, ma quando mi ritornate la mia ansia di sentire, di trovare quiete, io non voglio superare la soglia. Ascolto, rispondo fino a quando sento di starci, ed ogni volta è diverso. Quindi non aspettatevi che io adesso rispetti le vostre ricette. Voglio essere capita nel momento, non sono un “caso da aiutare”.
La percezione del corpo. Chi sono? A volte lo dico ad alta voce. Perché io sono spirito ed anche carne, però. Ma questo corpo non riesco a sentirlo. È fuori. Ne parlo solo nel dolore. Con il quale io sono abituata a convivere.
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