«Roma locuta, causa finita». La frase – attribuita a Sant’Agostino d’Ippona che la coniò al termine di una disputa ecclesiastica – indica la fine di una controversia a seguito della pronuncia di un’autorità inappellabile. Nel nostro caso la Consulta, che lunedì scorso ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo della legge 86/24 (la cosiddetta “Calderoli”) sull’autonomia differenziata. Al momento in cui scriviamo non sono ancora note le motivazioni, ma dai primi comunicati stampa pare che la Corte, che già un mese fa aveva manomesso l’articolato approvato dal Parlamento ravvisandone l’incostituzionalità in ben 7 punti, abbia respinto il quesito in quanto «poco chiaro». Sotto il profilo pratico, cambia davvero poco: la “Calderoli” è infatti una legge di mera procedura, voluta dall’attuale maggioranza al solo scopo di meglio equilibrare i propri rapporti interni, tanto è vero che il governo Gentiloni approvò, benché in limine mortis, le pre-intese con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna senza munirsi preventivamente di alcuna legge ma rifacendosi direttamente ai rispettivi terzi commi degli articoli 116 e 117 della Costituzione.
Dove invece la sentenza impatta pesantemente, travolgendo soprattutto le aspettative di Pd e Lega, è il piano politico. In questo senso, la «causa» di cui sopra è tutt’altro che «finita». Non è infatti un mistero che Elly Schlein confidasse nel referendum non tanto per vincerlo (portare alle urne 26 milioni di italiani in tempi di astensionismo galoppante è una pia illusione) quanto per sperimentare in modalità live prove tecniche di “campo largo”, mentre, sul fronte opposto, molti avevano intuito che Salvini scommetteva tutto sul mancato raggiungimento del quorum per poi spacciarlo come un assenso popolare all’autonomia differenziata, e cavarsi così d’impaccio con il minimo sforzo. Il verdetto di lunedì, invece, costringe entrambi a ripensare la strategia, che a questo punto va incentrata esclusivamente sulla manovra parlamentare. Un onere che ricade in verità più su Salvini che sulla Schlein, per la semplice ragione che la pasionaria dem è attesa da un compito tutt’altro che proibitivo, qual è, appunto, quello di compattare l’opposizione rispetto alle modifiche legislative che la maggioranza dovrà necessariamente apportare alla legge azzoppata dal primo verdetto della Consulta. Per il leader leghista, al contrario, la partita finalizzata a riannodare il filo spezzato della “Calderoli” e a ripararne le illegittimità costituzionali evidenziate dalla Corte costituisce un obiettivo facile solo a dirsi, ma non anche a farsi. Non fosse altro perché, a differenza del recente passato, oggi il tema dell’autonomia differenziata finisce fatalmente per intrecciarsi con le polemiche sul terzo mandato e, più in generale, con le trattative in corso sulle prossime elezioni regionali che vedono la Lega indisponibile a cedere il passo in Veneto agli alleati di Fratelli d’Italia, forti in quel territorio di un consenso elettorale quasi tre volte
superiore.
Il senso di questo garbuglio appare chiaro se solo si considera che parliamo di una Lega in preda ad una vera e propria crisi d’identità, stretta com’è tra il fallimento della prospettiva “nazionalista” nata in funzione delle ormai dissolte ambizioni di premiership di Salvini, la tentazione nordista rigurgitata sempre più disinvoltamente dai suoi governatori e l’implicita minaccia di scissione agitata da Vannacci, non a caso l’unico a dichiararsi sfavorevole all’ipotesi di un terzo mandato elettorale per Zaia e Fedriga. Un contesto di acuta fibrillazione. Che sta convincendo sempre di più i “padani” che i tre elementi – terzo mandato per Zaia, riconferma della guida leghista in Veneto ed autonomia differenziata – non possano coesistere gli uni senza gli altri. Soprattutto gli ultimi due, visto che sul destino politico di Zaia incombe un altro verdetto della Consulta, attivata in questo caso dal governo, che ha impugnato la legge sul terzo mandato approvata dal Consiglio regionale della Campania per sostenere la ricandidatura di De Luca. Conservare il Veneto (meglio ancora se ancora guidato da Zaia) per condizionare la legge sull’autonomia differenzia, che al contrario Salvini considera un mezzo intralcio, è oggi l’obiettivo irrinunciabile dell’anima più identitaria della Lega, tanto più ora che risulta depotenziato dai rilievi di illegittimità mossi dalla Corte Costituzionale.
Tutto insomma lascia presagire che non sarà facile per FdI e Forza Italia convincere l’alleato a privilegiare, nelle soluzioni legislative necessarie a superare le obiezioni della Consulta, più i profili “unitari” che quelli di “differenziazione”. Non solo perché il genoma della Lega è quello ma perché è ormai chiaro che il virus para-secessionista è annidato nel corpo stesso della Costituzione per effetto della sciagurata riforma del Titolo V (quello che regola i rapporti tra Stato e Regioni)voluta dalla sinistra nel 2001. È una verità riscontrabile nel dispositivo del verdetto che ha sancito l’inammissibilità del referendum, laddove la Corte scrive che,diversamente, il quesito avrebbe aggredito l’articolo 116 della Carta Fondamentale. Esito, questo, espressamente inibito dal momento che – ha sottolineato ancora la Consulta – la stessa può essere modificata solo attraverso la procedura di revisione parlamentare e giammai per abrogazione popolare. Tradotto in termini politici, significa che l’insidia della spaccatura del Paese non si esorcizza addolcendo la “Calderoli” del centrodestra bensì fuoriuscendo dal Titolo V riformato dalla sinistra.
E siamo al punto: può chiederlo la Lega? Certamente no. Ma può una Lega in crisi di consensi e di idee e per di più balcanizzata tra venetisti alla Zaia, salviniani e vannacciani mettersi di traverso rispetto ad una riforma delle autonomie che parta dalla profonda rivisitazione dell’attuale Titolo V per dotare l’Italia di istituzioni moderne, efficienti e, soprattutto, capaci di concorrere unitariamente al perseguimento dell’interesse nazionale? La risposta è ancora una volta no. E allora sia Giorgia Meloni ad assumere il dossier nelle proprie mani e a giocare in prima persona la partita della rifondazione (ché di questo si tratta) dello Stato. E lo facciacon il respiro lungo di chi sa che la corsa non sarà breve. Tanto più ora che a sinistra sono rimasti davvero in pochi a difendere il putrescente impianto del Titolo V. Ne ho avuto personalmente contezza intervenendo alla presentazione a Napoli del libro dell’on. Stefano Fassina (“Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord” – Castelvecchi editore) in una manifestazione organizzata dall’associazione “Polo Sud” dell’on. Amedeo Laboccetta in tandem con il “Coordinamento per la Democrazia costituzionale” guidato dal sen. Massimo Villone e dal prof. Eugenio Mazzarella e che vedeva la presenza, tra gli altri, dell’on. Pierluigi Bersani. È stato proprio quest’ultimo, seppur giustificando la riforma del 2001 con il contesto di allora, a dichiarare la disponibilità della sua parte politica a rivederla in profondità. Non per un sussulto di patriottismo, improbabile a quelle latitudini, ma perché basta un po’ di sale in zucca per capire che un’opposizione preoccupata solo di demolire è destinata all’irrilevanza. Un bagno di realpolitik in cui farebbe bene ad immergersi anche la Lega. Diversamente, rischierebbe di offrire alla premier il pretesto migliore perchiamare banco e andare ad elezioni anticipate. A lei converrebbero di sicuro, ad altri non so.
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