«Ora vivo nei boschi, il calcio moderno non è per me. Il doping? A 19 anni ero un credulone»

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Il più forte portiere della sua generazione. Un prodigio tra i pali. Un uomo, un “omone” per la verità, che mai si è lasciato incantare dalle luci del successo. Angelo Peruzzi nonostante una carriera di trionfi resta l’uomo della porta accanto. Sempre che si scelga di vivere in aperta campagna. «Ho iniziato come tutti, tirando calci a un pallone per le strade di Blera. Avrò avuto 7, forse otto anni. A farmi scoprire la porta però è stata la maestra delle elementari. Eravamo due squadrette e nessuno voleva andare in porta, a quell’età tutti voglio fare l’attaccante, così per decidere chi andava tra i pali ci ha fatto fare un esperimento: chi riusciva a toccare la traversa faceva il portiere. E io, che ero il più alto ci sono riuscito e mi sono messo in porta. La verità è che mi è piaciuto molto». 

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Quando è iniziata l’ascesa al calcio dei professionisti? 
«L’allenatore, avrò avuto 12 anni, ci ha portato a fare un provino con la Roma. Era per i nati nel 1969 quindi io che sono del ‘70 non avrei potuto farlo. Il mio allenatore però mentre gli altri facevano il provino mi ha detto: “visto che hai già il completino perché non ci mettiamo a fare due tiri in fondo al campo?”. E niente, alla fine l’allenatore della Roma ha detto ai suoi: “provate quel ragazzino in porta” e poi mi hanno chiesto di tornare il giorno dopo. E così è iniziata». 
 

Dalla Roma giovanile, al Verona, passando ancora per Roma, Juventus, Inter e Lazio. Una carriera stellare segnata anche da momenti bui?
«A 19 anni ero un ragazzo credulone per niente smaliziato e ho fatto un errore grave. Il doping mi ha tenuto lontano dal campo per un anno. È stato un periodo buio, estremamente difficile, che però alla fine si è rivelato la mia fortuna. Mi ha fatto crescere, diventare un uomo. Capire cosa volevo davvero e ricominciare. Dopo quel periodo sono andato alla Juventus e ho vinto tutto quello che c’era da vincere». 

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Nella sua bacheca brillano tre campionati di Serie A, due Supercoppe, una Champions, una Supercoppa Uefa e una Supercoppa intercontinentale. Senza contare i tantissimi riconoscimenti come miglior portiere. Ma qual è stata la più grande impresa?
«Senza dubbio – e sorride con gli occhi che si illuminano mentre lo ricorda – la vittoria della coppa intercontinentale a Tokio nel 1996. Una partita secca giocata lontanissimo. È stato magico ed emozionante». 
 

In carriera ha anche parato un rigore a Roberto Mancini…
«Una serata magica quella sera a Verona. Me la ricordo come fosse successo ieri: la Samp ci stava provando in ogni modo a segnare ma la palla non voleva proprio entrare in rete (ride) e alla fine ho anche parato il rigore a Mancini. Avevo 19 anni iniziavo la carriera, mentre lui era uno già che andava in Nazionale. Era più in alto, affermato». 
 

E nel corso degli anni e della carriera ne avete mai parlato di quel rigore?
«Gli episodi nel campo restano sempre sul campo. Non ce li portiamo dietro».
 

Non ha mai ceduto al fascino del club stranieri. Cosa l’ha trattenuta?
«In Italia ho avuto tante soddisfazioni. Due volte mi hanno proposto di trasferirmi, nel 2006 fu una squadra araba: rifiutai. E appena arrivato alla Lazio l’Arsenal mi prose un contratto. Ma io non me la sono sentita di andare via. La Lazio, in quel momento della mia carriera, rappresentava il raggiungimento dei miei obiettivo. Stavo bene, ero soddisfatto. Forse col senno del poi… sarebbe stata un’esperienza da fare».

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E adesso cosa fa?
«Il pensionato. E mi godo la natura. Le cose semplici. Una delle cose più belle svegliarsi la mattina e andare per boschi». 
 

E lo fa a Blera, la sua città natale dalla quale non si è mai staccato…
«Non ho mai tagliato il cordone, anche quando giocavo fuori tornavo sempre. Qui c’è casa, la famiglia, gli amici e la mia terra».
 

Si è anche candidato per Blera. 
«Sono stato eletto consigliere, ma non per ambizione politica. Ma solo per dare una mano al mio paese».
 

E il calcio non le manca?
«Assolutamente no, il calcio moderno non è per me. Ogni tanto quando guardo le partite e inquadrano la porta penso “ammazza quanto è grande”. Però al campo ogni tanto ci vado. Una volta al mese vado ad allenare i bambini della scuola calcio di Blera». Proprio dove la storia di Angelo Peruzzi è iniziata. 
 

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