Memorie dello sterminio e disabilità

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27 gennaio 1945-27 gennaio 2025. Non solo non si può e non si deve dimenticare l’Olocausto degli ebrei, ma non si deve tacere che la tremenda filosofia che lo ispirò sacrificò tante altre vite considerate “a perdere”: sinti, rom, omosessuali, disabili. È a una logica suprematista non poi così lontana da quella cui in mutate forme rimandano tante tragedie del nostro tempo. L’autrice di questo articolo — Alessandra Strano, assistente sociale, consigliera e referente Regione Sicilia ass. Vi.P.S. E.T.S., referente Area formazione Uildm (sez. Mussomeli), sede operativa Mascali — da ragazza è stata mia allieva e ora è mia amica; ha un’intelligenza e una sensibilità che scoprirete leggendola.

«La giornata nazionale dedicata alla commemorazione delle vittime della Germania nazista viene ricondotta quasi unicamente all’atroce sterminio del popolo ebreo, la Shoah. In realtà quella pagina di storia è assai più stratificata, nell’intento nazista di perseguire l’istituzione di una razza pura e “superiore”. Le persecuzioni e le violenze che da quella causa discesero furono infatti primariamente rivolte alla popolazione con disabilità.
La volontà di epurare il popolo tedesco e di eradicare coloro che rischiavano di contaminarlo riguarda vicende a lungo sottaciute dalla storiografia dello sterminio o considerate mere appendici dei tragici fatti che lo riguardarono.
Il paradigma su cui si fondarono i presupposti di quel progetto di distruzione, che fu designato col nome di Aktion t_4 (abbreviazione di Tiergartenstrasse, la via in cui era situata la centrale operativa) fu costituito dall’eugenetica, nascente disciplina a carattere scientifico volta a produrre un perfezionamento della “specie” attraverso la selezione di fenotipi ritenuti validi. Essa fu considerata uno strumento efficace non solo per migliorare il Volk, ovvero il popolo come stirpe, ma anche per rispondere alla necessità di ridurre le spese legate alle cure delle persone con disabilità in una Germania segnata dalla crisi sociale ed economica che la Prima Guerra Mondiale aveva sortito.
Solo successivamente l’Aktion t_4 venne ricostruito e storicizzato grazie alle ricerche meticolose svolte prevalentemente per volontà delle Associazioni di categoria e delle persone direttamente coinvolte.

L’eugenetica preesisteva al regime (collocava i suoi albori nel XIX secolo) ma fu nei primi decenni del ‘900 che rafforzò le sue basi, facendo convergere su di sé diversi apporti disciplinari e diffondendosi nel panorama occidentale. Il prestigio accordato alle scienze mediche, che primeggiavano nell’opera di legittimazione, unitamente al corollario filosofico che la caratterizzava, ne sancì una rapida adozione e riconoscimento sociale che presto rese l’eugenetica asservita alla causa nazista che mirava a una società libera da contaminazioni etniche, in piena salute fisica e mentale.
L’appello all’individuo sano e robusto e, con esso, il culto del guerriero e del corpo perfetto presenta un’indiscutibile ricorsività storica che suggella la sua profonda penetrazione nei valori e nella sovrastruttura del pensiero occidentale.
Così la ricerca di quell’idealtipo, rimessa al fanatismo esasperato e alle estreme conseguenze che contraddistinsero le finalità del nazismo, fu sposata da personale medico e dell’apparato sanitario, esperti/e, i quali si resero protagonisti/e, insieme al complesso impianto del regime e dei suoi dispositivi, di azioni tra le più atroci e incomprensibili al senso umano che la storia abbia consegnato.

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Prima dell’ascesa al potere di Hitler, gli assunti dell’eugenetica avevano già fatto presa nelle idee delle classi ai vertici: La società tedesca per l’igiene della razza impiegò in maniera ricorrente espressioni come Minderwerting (“esseri inferiori”), Leere Menchenhulsen (“involucri vuoti”) o Levesunwerters Leeben (“vite non degne di essere vissute”) fino a che non diventarono di uso comune, nel pieno della Repubblica di Weimar, anche da democratici/he, studiosi/e e intellettuali. Noti/e rappresentanti del mondo intellettuale, tra l’altro, si esposero pubblicamente sostenendo che molte condizioni, come il ritardo mentale grave, costituivano un «onere terribilmente difficile da portare […]. Un’autentica appropriazione indebita di risorse umane preziose».
Nel 1920 Karl Binding, giurista tedesco, e Alfred Hoche, psichiatra, pubblicarono un testo intitolato L’autorizzazione per la distruzione della vita che non merita di essere vissuta. Qualche anno dopo Hitler fece propri quei principi e nel suo Mein Kampf definì le persone con disabilità «aborti tra l’uomo e la scimmia».
Il 14 luglio 1933, sei mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere, entrò in vigore la Legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie genetiche. La stagione della sterilizzazione, per la quale non era previsto il consenso dei soggetti, coinvolse circa 300.000 persone prima del conflitto e circa 75.000 dal ’39 al ’45.
Il passo successivo alla sterilizzazione fu l’eliminazione.

Nel nome di quel tristemente celebre obiettivo che era la garanzia della purezza alla propria stirpe fu interrotta la vita di migliaia di persone.
In principio furono i bambini e le bambine. L’operazione, che coinvolse personale medico e ministeri, venne camuffata e presentata formalmente come una serie di «Interventi terapeutici disponibili resi possibili da recenti scoperte scientifiche». Le strutture ospedaliere avrebbero dovuto compilare apposita modulistica avente lo scopo di segnalare i piccoli pazienti che necessitavano di cure all’avanguardia; ma mentre i genitori erano convinti di firmare il consenso che avrebbe consentito ai bambini di accedere a trattamenti innovativi, di fatto i piccoli venivano condotti in vere e proprie fabbriche di morte. Alcuni decessi furono causati da inedia, altri da overdose di farmaci, altri ancora da viaggi massacranti stipati ed ammassati in camion deputati a condurli negli ospedali “specializzati”.
Il numero delle vittime non fu inferiore ai 5000 bambini e bambine.

Lo sterminio degli adulti con disabilità richiese maggiori risorse umane e un’organizzazione ancor più capillare che coinvolse diverse amministrazioni locali. G. Schluter, posto a capo della sezione per la politica sociale e il sistema ospedaliero, fu designato per istruire i borgomastri sull’iter stabilito per compiere l’operazione Programma eutanasia. Parecchi anche i medici e il personale ospedaliero coinvolti. La selezione avveniva sulla base del giudizio da parte degli esperti circa le condizioni di salute e dell’utilità sociale dei/delle pazienti.
Nei centri per l’eutanasia vennero — per la prima volta nella storia dell’umanità — utilizzate le camere a gas che, come nei campi di concentramento, somigliavano a docce.
Quando l’operazione divenne di pubblico dominio furono sollevate opposizioni: da parte dei leader protestanti, dei rappresentanti della chiesa cattolica, fino all’intervento della magistratura che chiese ragione della sparizione di migliaia di persone. In questo clima Hitler sospese il programma e i luoghi deputati allo sterminio furono smantellati. Ciononostante gli omicidi continuarono compiendosi negli stessi ospedali per mano di personale medico e infermieristico: come per i bambini e le bambne, la morte veniva camuffata da un eccesso di farmaci o da malnutrizione. Questa particolare fase fu chiamata Eutanasia selvaggia.

Se in casa propria i nazisti scelsero discrezione, sul fronte orientale agirono in maniera esplicita eliminando altre migliaia di esseri umani con metodi atroci e brutali.
In quegli anni furono inoltre espiantati migliaia di cervelli umani per motivi di studio, alcuni persino da persone ancora in vita. Gli organi oggetto di ricerca e sperimentazioni passarono agli istituti scientifici sorti dopo la guerra e solo diversi decenni dopo trovarono degna sepoltura.
L’Aktion T_4 e il determinismo biologico che lo sorreggeva costituirono il medesimo terreno di legittimazione per il massacro di milioni di persone ebree e centinaia di migliaia di rom e sinti.

Quali ne siano le ragioni, l’omissione delle vicende legate all’Aktion t_4 testimonia la difficoltà che le persone con disabilità hanno attraversato per inserirsi nella dimensione della rilevanza storica, restando a lungo vittime silenti della diffusa tendenza alla loro rimozione.
Tematizzare la narrazione riguardante la popolazione con disabilità e integrarla nel più ampio scenario degli intenti cui l’eugenetica aveva dato seguito non rappresenta un mero dovere di cronaca, per quanto importante sia una rigorosa ricostruzione dei fatti, ma significa riconnetterla a quella trama di vicende che per secoli le hanno negato identità, significazione e la possibilità di essere parte della storia, soggiacente com’è stata alla presunzione di irrilevanza umana prima ancora che storico-culturale.
Da castigo degli dei a vita indegna di essere vissuta, la storia rimanda a una linea semantica e a un destino che le società vedrebbero implicitamente segnato sulla base di evidenze genotipiche e/o fenotipiche.
Non è casuale che il medesimo secolo, negli anni successivi al secondo conflitto, abbia generato una pregnante letteratura impostasi per la prima volta in merito all’eredità simbolica e valoriale costruita attorno ai fragili della storia: E. Goffman con il suo Identità Negata e E. De Martino con la Crisi della Presenza ne sono esempio, sino a giungere ai movimenti formatisi in seno alla medesima popolazione con disabilità, come il Movimento per la Vita Indipendente o i Disability Studies».
Raccontare la storia senza estromissioni di fatti o persone non mira a una mera celebrazione commemorativa ma, almeno in questa sede, a una riflessione su quanto alcuni elementi di quel paradigma, senza considerare le azioni brutali che erano connesse al regime, continuino a veicolare lo sguardo e il giudizio intorno al mondo della disabilità.

Bibliografia
Alice Ricciardi Von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, 2000, Casa editrice Le Lettere;
Enrico Girmenia, l’Eutanasia nazista, 2016, Armando Editore.
Herny Friedlander, Le origini del genocidio nazista, 2021, Edizioni Res Gestae.
Gotz Aly, Zavorre, 2017, Einaudi;
Matteo Schianchi, Storia della disabilità, 2012 Carocci editore;
Matteo Schianchi, La terza nazione, 2009, Feltrinelli.

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Articolo di Graziella Priulla

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Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.



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