C’è sempre un futuro per il Futurismo

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L’esposizione in corso a Roma sulla più importante tendenza artistica italiana del Novecento ha alcuni pregi ma anche mancanze. Che, in ogni caso, richiamano l’attenzione su un formidabile movimento di creatività e libertà espressiva.


La mostra dell’occasione mancata, dicono alcuni sollecitati dai vari specialisti che anche ingiustamente ne sono rimasti fuori. È la mostra con cui finalmente si celebra un momento che deve appartenere alla cultura di ciascun italiano, dicono altri che più si ritrovano in un progetto fortemente voluto dal ministero della Cultura. Ma come è questa mostra Il Tempo del Futurismo, più chiacchierata che vista, a cura di Gabriele Simongini, ancora fino al 28 febbraio alla Gnam, la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma? È una mostra in grande, cosa che in Italia non è mai scontata, e questo è di certo un punto a favore. La grandezza, però, non è un criterio assoluto. Sia chiaro, il compito era improbo, di quelli in cui è quasi impossibile soddisfare tutti. Difficile che questa mostra resti nella memoria come quella di Palazzo Grassi a Venezia (1986) che non era certo maggiormente in grande dell’attuale, anche se non mancavano capolavori qui assenti come La città che sale di Umberto Boccioni o I funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà. La mostra veneziana rispondeva a un’esigenza critica largamente condivisa in quel momento, la definitiva riabilitazione internazionale – il curatore era Pontus Hulten, progressista militante – di un movimento artistico certamente importante perché su di esso gravasse una censura politica, come ho recentemente indicato nel mio libro su Arte e Fascismo. Mino Somenzi, sull’organo ufficiale del movimento (Futurismo, n. 27, 12 marzo 1933) scriveva: il «Futurismo è una forma d’arte e vita; il Fascismo una forma politica e sociale: cose diametralmente opposte».

I futuristi avevano portato avanti un’attitudine di insofferenza verso l’idea che stia all’arte tradurre fedelmente una ideologia politica, e si trovano a essere gli ultimi difensori di un’arte moderna, in un tempo che vede il potere e l’arte sempre più congiunti. La Prima guerra mondiale aveva fatto emergere tutte le contraddizioni ideologiche del Futurismo, che non era morto, tornando in auge negli anni Venti e Trenta: Marinetti sostiene il Fascismo e diventa riverito accademico d’Italia; Balla e Depero continuano la loro personale «Ricostruzione futurista dell’universo». Il tempo del Fascismo investe poi gli anni che succedono alle avanguardie, con un «rappel à l’ordre» che si diffonde in tutta Europa, a partire dalla fine del Primo conflitto, e culmina nel Picasso classico (tendenza che in Italia investe Virgilio Guidi, Felice Casorati, Franco Gentilini, Mario Sironi, Achille Funi, Massimo Campigli, Mario ed Edita Broglio), nel Morandi metafisico, «classicisti moderni» già prima del Fascismo.È dunque anche in virtù della grande mostra di Palazzo Grassi del 1986 e di quanto ne è conseguito che oggi nessuno può seriamente affermare di volere riscattare il Futurismo. Semmai la sfida è di riproporre quello che a tutti gli effetti è un classico dell’arte novecentesca, alla base del concetto stesso di Avanguardia, in termini che da una parte esprimano la molteplicità e la contraddittorietà di un fenomeno che proprio per questo è stato di enorme portata mondiale, dall’altra concedendo il minimo possibile all’accademia e al museo, che già Marinetti rifiutava nelle prime intenzioni del suo manifesto.

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Se per il primo punto mi pare sia stato accolto solo parzialmente il mio suggerimento, quando ancora ero al ministero, perché la mostra si ispirasse a un’idea centrifuga di Futurismi, per il secondo si è puntato a rappresentare la modernità, decisiva negli sviluppi del movimento, attraverso la partecipazione di opere e macchine nel segno della velocità, la più futurista delle virtù. Le buone intenzioni non evitano del tutto l’effetto di un’imbalsamazione che si poteva evitare mostrando più coraggio, anche con provocatoria, futurista irriverenza. Per esempio: in mostra la scultura di Boccioni è insufficiente. Dell’iconica Forme uniche della continuità nello spazio non v’è l’originale, il gesso oggi a San Paolo del Brasile, Boccioni dichiara di disdegnare altre materie. Né vi sono le traduzioni in bronzo volute da Marinetti, quando morì Boccioni, malgrado le presenze in prestigiosi musei e le quotazioni milionarie di mercato. In realtà la Galleria nazionale possiede un originale, L’Antigrazioso, non esposto perché danneggiato. Cosa ci sarebbe stato di più in linea col Futurismo, se davvero si considera ancora attuale il suo spirito anticonformista, che presentare un’opera nell’artisticità involontaria e temporanea, conferitagli da un danneggiamento? Non avrebbe funzionato anche come viatico per alcune delle esperienze espressive più rivoluzionarie del Futurismo, non rappresentate in mostra, come il Tattilismo di Marinetti, strepitoso anticipatore di Robert Rauschenberg e del Nouveau Réalisme, o il polimaterismo di Enrico Prampolini? Non sarebbe però corretto riferire soltanto delle mancanze della mostra (bandita, fra l’altro, la fotografia, così come troppo poco spazio viene concesso al dialogo col Cubismo, quasi che potesse sporcare la patente di nazionalità del movimento), considerando alcune presenze meritevoli da sole della visita, anche se talvolta in collocazioni spiazzanti. La Lampada ad arco di Giacomo Balla denuncia un Divisionismo che si emancipa dal Simbolismo più letterario, ancora presente nei bellissimi Sole di Pellizza da Volpedo e Caduta degli angeli di Gaetano Previati, concentrandosi su una dinamica che guarda all’astratto, estremizzata nella Bambina che corre sul balcone dello stesso Balla. Con quest’ultima si indica al Futurismo un percorso da battere, così come capita in La rivolta di Luigi Russolo, l’inventore di un «intonarumori» che prefigura le sperimentazioni di John Cage.

Sarà una sorpresa, per chi ancora non lo conosce, Romolo Romani, firmatario del manifesto del 1910 poi afflitto da disturbi mentali, così come l’importante contributo post-bellico di una serie di artiste (Velocità di motoscafo di Benedetta Cappa Marinetti, Battaglia aerea nella notte di Marisa Mori), che appare eroico tra tanto sfoggio di virilità (si veda, per esempio, l’aeropittore Tullio Crali nel Prima che si apra il paracadute).La mostra della Gnam certifica, chissà se oltre i suoi propositi iniziali, che il «tempo del Futurismo» appartiene a un secolo non più nostro, e dunque proporne oggi un rinnovo del culto appare come un sentimento ritardatario, ispirato da una nostalgia che lo stesso Marinetti avrebbe disprezzato. Il Futurismo è una fase formidabile del Novecento italiano: guardiamo alla sua vivacità, alla sua libertà, alla sua dirompenza come a una rivoluzione compiuta.

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