Al Hol, la bomba che ora rischia di esplodere

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Una distesa di reti, grate e filo spinato taglia il deserto. Fuori, tutto intorno, ci sono le postazioni asaysh, la polizia dell’Amministrazione autonoma del Nord-est della Siria (Aanes). Più lontano vigilano le Syrian Democratic Forces (Sdf), la federazione di unità di autodifesa nata dalla rivoluzione del Rojava, il Kurdistan siriano.
La terra è una piana di sfumature di giallo. Non cresce un albero. Dentro, nelle tende, vivono 39mila persone: al 95% donne e bambini, la maggior parte familiari dei miliziani dell’Isis e alcuni sfollati di guerra.
I minori sono 24mila, i più piccoli sono nati dietro la recinzione e non hanno mai visto il mondo fuori. Alcuni di loro lanciano sassi verso i pulmini che sfilano all’esterno, altri fanno ciao con le mani, uno mostra l’indice destro: è il saluto dello stato islamico.

IL CAMPO DI AL HOL – 85 chilometri a sud di Qamishlo, capitale della regione a maggioranza curda – è «una bomba a orologeria», dice la direttrice della struttura Jihan Hanan. «Abbiamo avuto informazioni dagli alleati della coalizione internazionale (guidata dagli Usa, ndr) e dal governo iracheno che l’Isis sta pianificando qualcosa. Ma non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno», aggiunge. Parla davanti a una delegazione europea di giornalisti, deputati e amministratori locali. L’obiettivo è riportare l’attenzione internazionale su quello che accade nel Nord-est: dopo la caduta del regime di Assad riflettori e promesse di investimenti sono puntati solo su Damasco.

Il campo, creato da rifugiati iracheni nel 1991 durante la prima guerra del Golfo, è tornato a riempirsi dopo la battaglia di Baghuz del marzo 2019. Quella che ha segnato la sconfitta militare dell’Isis e posto fine a Daesh come entità territoriale. «Il Califfato, però, continua a esistere come ideologia, come progetto da realizzare», dice Hanan. E proprio da Al Hol, secondo alcuni, dovrebbe nascere di nuovo.

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LE DINAMICHE che si sono ricreate nella tendopoli sono le stesse che per cinque anni hanno permesso alla creatura di al-Baghdadi di farsi stato: molte delle donne detenute non erano «solo» mogli e madri ma ingranaggi di quella macchina, responsabili di torture, polizia morale, addestramento.

Tra il 2019 e il 2020 all’interno sono stati registrati 150 omicidi di abitanti del campo. Poi sono iniziati i blitz militari, sostenuti dalla coalizione, alla ricerca delle armi che continuano a entrare attraverso i camion e il personale locale che fa la spola ogni giorno.

L’inferno di Al Hol è diviso in gironi: quello per i siriani, quello per gli iracheni e la sezione ancora oggi quasi inaccessibile dove si trovano i parenti dei foreign fighters che gli altri paesi non hanno voluto riprendersi. Complessivamente la popolazione si è ridotta, dopo aver raggiunto un massimo di 64mila presenze, ma nel 2024 solo 304 stranieri sono stati rimpatriati: oltre la metà in Kyrghizistan, poi in Russia, Turkmenistan e a seguire altre nazionalità.

Quando l’8 dicembre 2024 è caduto il regime di Assad i siriani sfollati di guerra hanno festeggiato: per la prima volta dopo un decennio sperano nel ritorno a casa, che nei giorni scorsi l’Amministrazione autonoma ha detto di voler sostenere. Dal canto loro le famiglie dello Stato islamico hanno subito intravisto nella destabilizzazione dell’area una possibile via di fuga collettiva.

«GLI STRANIERI erano convinti che in una settimana Al Jolani sarebbe venuto a liberarli», continua Hanan. Così si sono barricati nella sezione Annex: per dieci giorni hanno impedito alle Sdf di entrare e per una settimana alle ong di consegnare cibo e servizi. La «ribellione» è finita solo a causa della fame, ma il segnale è stato chiaro: le fazioni più radicalizzate vogliono approfittare del momento.

Nel campo di al Hol (AP Photo/Baderkhan Ahmad)

Il campo non è impermeabile. All’ingresso ci sono solo le Sdf e le asaysh, le forze di sicurezza interne, ma nessun metal detector. «Ogni giorno transitano 400 veicoli e migliaia di persone. Il contrabbando avviene così. È impossibile controllare tutto», afferma Hanan. Entrano armi, telefoni cellulari, denaro: a fare da corriere sono gli addetti locali delle organizzazioni che operano nel campo e chi consegna beni alimentari, costretti da minacce di morte delle milizie islamiste e da un po’ di soldi.

IL DENARO CHE ENTRA serve anche al mantenimento dei familiari dei membri dell’Isis. Accanto alle tende della sezione, alla fine di una piccola salita, c’è una sorta di mercato all’aperto, baracchine di ferro tinteggiato di blu. Scatoloni di cartone, buste di patatine, sacchi di iuta sporcano il pavimento di sabbia gialla che corre giù fino alla tendopoli. Qui l’amministrazione del campo consegna frutta, verdura, riso, snack, lattine di ceci. «Arriva tutto da fuori, loro comprano quello che serve e cucinano da sé – ci dice un’operatrice -. I camioncini, però, non servono solo a far entrare dentro il campo, servono anche per le evasioni: le persone si infilano nelle cisterne dell’acqua o nei furgoncini dei commercianti e scappano». Altri tentano di rompere la recinzione, «ci provano quasi ogni notte».

È la recinzione a cui rivolge lo sguardo un gruppo di bambini, nessuno ha più di dieci anni. Qualcuno è più giovane del campo di Al Hol: sono i bambini nati dai matrimoni tra adolescenti, forzati dalle famiglie e dalle loro gerarchie interne che replicano la modalità di gestione della comunità secondo Daesh.

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ALLE DONNE È AFFIDATO lo stesso compito che avevano fuori: mettere al mondo nuovi «cuccioli del califfato» e proseguire un’opera feroce di indottrinamento. Le famiglie si rifiutano di mandare a scuola bambini e ragazzini e gli inculcano l’unica «educazione» possibile, l’ideologia dell’Isis. Il resto lo fa quel limbo miserabile che è Al Hol: il gelo invernale, l’arsura estiva, le tende ingiallite, i libri che non ci sono, il mondo irraggiungibile, le ore e i giorni che si ripetono uguali a se stessi.

L’Amministrazione autonoma sa che il campo è uno Stato islamico in miniatura. Per questo, da qualche anno, ha aperto due centri di rieducazione dove finiscono i maschi una volta compiuti i 12 anni. Vengono sottratti alle famiglie per interrompere il processo di indottrinamento e per impedire nuove nascite. Non è facile: le madri li nascondono, rendendo impossibile sapere con esattezza in quanti vivano nella sezione Annex.

«Sono centri per la deradicalizzazione – ci dice Sara, parte dell’amministrazione di Al Hol – e una sorta di case famiglia. Vivono là, hanno un alloggio e la mensa, un percorso educativo e uno sportivo, le aule e il campetto. Non arrivano tutti da Al Hol, alcuni provengono da Al Roj». È il campo gemello, l’altro centro di detenzione per membri e familiari dell’Isis.

«Non sappiamo per quanto tempo ancora questi due campi dovranno restare aperti – continua Hanan – Gli sfollati devono poter tornare a casa e i foreign fighters vanno rimpatriati: gestire 40mila persone è un peso insopportabile per l’amministrazione». Questa, nel corso degli anni, ha ripetutamente chiesto alla comunità internazionale l’istituzione di un tribunale che giudichi gli affiliati allo Stato islamico, consapevole del dilemma etico e politico di imprigionare migliaia di persone senza processo. Nessuno ha mai accolto questa proposta.

OGGI LA PREOCCUPAZIONE principale delle autorità della Siria del Nord-est sono gli attacchi turchi sul fronte lungo l’Eufrate dove gli F-16 di Ankara continuano a bombardare militari e civili nei pressi della diga di Tishreen e del ponte di Qaraqoz, a sostegno delle milizie islamiste raggruppate nell’Esercito nazionale siriano. Nonostante questo ennesimo sforzo militare, però, le Sdf hanno scelto di aumentare la presenza intorno ad Al Hol, la «bomba a orologeria» che rischia di esplodere.



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