Accomodamento ragionevole per il lavoratore disabile: sì allo smart working

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La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ordinato alla Società datrice di assegnare il lavoratore ad una sede presso la quale egli avrebbe potuto svolgere, da remoto, o in regime di lavoro agile, le stesse mansioni svolte presso la sede di assegnazione.

In particolare, la Corte di merito, per quanto qui rileva, considerati i gravi deficit visivi del lavoratore, invalido civile, aveva riscontrato la violazione dell’art. 3, comma 3-bis, d. lgs. n. 216/2003, in relazione alla mancata adozione da parte della Società di ragionevoli accomodamenti, prescritti dalla norma in funzione antidiscriminatoria con riguardo ai lavoratori con disabilità.

La datrice di lavoro aveva così proposto ricorso per cassazione che la Corte, con una recente pronuncia, ha rigettato (Cass., sent., 10 gennaio 2025, n. 605).

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Nell’esaminare la vicenda, la Corte ha dapprima rammentato che, in linea generale, la tutela contro la discriminazione per la disabilità si basa sulla direttiva 2000/78/CE, e sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include “il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive)”.

Inoltre, tale tutela è fondata sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con legge n. 18/2009 ed approvata dall’UE.

La necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili – si legge nella pronuncia – in un bilanciamento con legittime finalità di politica occupazionale, postula l’applicazione “del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE”.

Posto che, in tema di comportamenti datoriali discriminatori, nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta e nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima (Cass. n. 20204/2019), il termine di paragone, secondo la Corte, è rappresentato dalle modalità della prestazione per i lavoratori non portatori di gravi disabilità; la questione degli accomodamenti ragionevoli possibili e praticabili in concreto si sposta, pertanto, sul piano della prova.

A questo riguardo, la Cassazione ha rammentato che, nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’art. 4 del d.lgs. 216 del 2003, che non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente.

Ne consegue che, per effetto dell’attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta a seguito del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (cfr. Cass. n. 23338/2018, in tema di recesso).

Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte territoriale aveva proceduto, secondo tale regime probatorio, e con accertamento di fatto riservato al giudice del merito, a verificare l’effettiva praticabilità di ragionevoli accomodamenti, nel rispetto dei principi stabiliti dalla direttiva 2000/78/CE, per rendere concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore. Da qui la conclusione secondo la quale “il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, è stato individuato nella soluzione dello smart working dall’abitazione, già utilizzata nel periodo pandemico (v. Cass n. 6497/2021 cit., n. 9870/2022)”.

Il ricorso, come detto, è stato rigettato.

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