È uscito la settimana scorsa nelle librerie, per le edizioni Carocci, il volume di Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. Dalla quarta di copertina: “L’espansione non regolata del turismo di massa a Napoli ha prodotto cambiamenti impensabili fino a pochissimi anni fa, modificando il paesaggio del centro storico e la stessa struttura socio-economica della città. In questo contesto si muovono i soggetti al centro di questa ricerca : i grandi enti del Terzo settore attivi in tre quartieri del centro – Sanità, Quartieri spagnoli e Forcella – che oggi forniscono un ventaglio di servizi che va ben oltre il classico intervento socio-assistenziale, operando sul crinale tra sfera pubblica e mercato. Questi enti esercitano un’influenza crescente sulle scelte dei governanti, indicando le priorità operative ed elaborando le narrazioni egemoniche intorno alle quali si costruisce il consenso e si rimodella la città. La loro azione risponde a logiche strettamente imprenditoriali, basate sulla convenienza economica, la competitività, la reputazione mediatica; la loro priorità è lo sviluppo di nuovi segmenti di mercato in cui dispiegare senza ostacoli le proprie attività. Queste dinamiche, sullo sfondo della “città del turismo”, stanno producendo conseguenze opposte a quelle proclamate dai grandi enti nelle loro dichiarazioni programmatiche: non la vivibilità dei quartieri, la partecipazione, il benessere delle comunità, ma la precarietà abitativa, lavorativa ed esistenziale dei suoi abitanti più fragili”.
Ne pubblichiamo a seguire due brevi estratti.
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Gli enti di maggiori dimensioni presenti nelle tre aree che abbiamo esaminato sono: la Fondazione di comunità San Gennaro nel rione Sanità, la Fondazione Foqus nei Quartieri spagnoli e l’associazione L’Altra Napoli, operante sia a Forcella che alla Sanità. Le caratteristiche principali di questi enti, che li rendono un unicum rispetto al contesto socio-economico in cui operano, sono sostanzialmente tre: la quantità di risorse di cui dispongono, fuori scala rispetto agli altri attori associativi e più in generale rispetto a tutti gli attori economici del territorio; le relazioni ad alto livello istituzionale e imprenditoriale che sono in grado di attivare e rendere operative; la costante (e benevola) attenzione mediatica che le loro iniziative riescono a sollecitare. Sono i tre fattori decisivi, quelli che determinano un impatto sui territori di riferimento, sul dibattito pubblico e sulle stesse politiche urbane che va ben oltre le singole iniziative messe in campo e che gli altri enti (quelli intermedi e quelli informali) non sono in grado di eguagliare se non agganciandosi alla locomotiva rappresentata da questi enti maggiori, che definiamo “ultracorpi”. Tali fattori sono poi al servizio di un’ideologia che, seppur con differenze pratiche tra un’esperienza e l’altra, appare fondata su principi e rappresentazioni comuni, che da un lato informano l’azione locale degli ultracorpi, dall’altro ambiscono ad affermarsi in un campo più vasto, che concerne le politiche di governo e la forma futura della città.
Gli obiettivi e gli strumenti che i dirigenti degli ultracorpi hanno messo a punto nel corso del tempo, di pari passo con la crescita delle loro “creature”, possono essere ricostruiti e analizzati attraverso i numerosi interventi in pubblico, la pubblicazione di articoli e libri, le interviste rilasciate ai giornali e ad altri media. Uno dei cardini della loro ideologia è l’insofferenza per tutto ciò che riguarda l’azione pubblica. Nelle parole dei dirigenti degli ultracorpi la parola stessa, “pubblico”, fa rima con burocrazia, invadenza, lentezza, inconcludenza, e più in generale costituisce il termine di paragone in opposizione al quale si autodefinisce con orgoglio la propria identità.
Scrive per esempio Rachele Furfaro, fondatrice di Foqus: “Le scuole Dalla Parte dei Bambini hanno deciso nel 2012 di trasferire le proprie metodologie ed esperienze all’interno di un quartiere povero e critico di Napoli, i Quartieri spagnoli, […] hanno avviato il progetto, per poi costituire una fondazione a cui ne è stata affidata la gestione e lo sviluppo. Il progetto di rigenerazione urbana a base educativa gestito dalla Fondazione Quartieri spagnoli non nasce quindi da una strategia di sviluppo pubblica, dal premio di qualche bando europeo, né dall’iniziativa di qualche assessorato. Trova spinta ideativa (e investimento iniziale) da una scuola”¹.
Padre Antonio Loffredo, ispiratore della Fondazione San Gennaro del rione Sanità, sostiene: “Il potere pubblico non ce la fa. È prigioniero. Di leggi, codici, gare d’appalto. Vedi il caso del Cimitero delle Fontanelle. Il Comune non sa come gestirlo; ma dallo al quartiere, dico io. Facciamo come con le catacombe di San Gennaro. Napoli è una miniera di siti minori, che possono essere trasformati in un affare civile e anche economico, con progetti di comunità. È il nostro petrolio, lasciate che lo tiriamo su con le nostre forze. Ormai abbiamo il know how. I miei ragazzi della Paranza sono imprenditori, ce la faranno anche senza di me, tanto io ho un altro datore di lavoro e prima o poi dovrò lasciare”².
Ancora più esplicito il manager Ernesto Albanese, fondatore dell’associazione L’Altra Napoli, che finanzia progetti sociali e culturali tra il rione Sanità e Forcella. Nel 2021, alla domanda di una giornalista sui conti in rosso e le disfunzioni dell’ente municipale, risponde così: “[Si dovrebbe] iniziare a trattare il comune di Napoli come un’azienda privata di servizi. L’azienda privata ha una caratteristica importante: sceglie gli uomini e se non vanno bene li cambia. Meccanismo che nella pubblica amministrazione spesso non può avvenire, perché la politica per sua natura è compromesso e quindi inevitabilmente bisogna fare i conti con la realtà politica e non con quella economica”³.
[…] All’origine dei grandi enti che stiamo considerando, abbiamo tre soggetti forti: la Chiesa cattolica, in una delle sue incarnazioni locali più dinamiche (imprenditoriale e antistatalista); la scuola, nella sua declinazione privata, sperimentale e progressista, fortemente imperniata sul concetto di impresa; infine, la borghesia delle professioni dirigenziali, che in buona parte vive e lavora fuori Napoli ma considera un punto d’onore la possibilità di contribuire attivamente al “riscatto” della propria città. In tutti i casi, come abbiamo visto, l’enfasi è posta con insistenza sulla soluzione imprenditoriale, considerata sia per il suo versante decisionista, che consente di operare senza troppi vincoli per “valorizzare” adeguatamente beni e servizi, ma anche per le sue virtù emancipatorie, come stimolo ad assumersi delle responsabilità e di conseguenza come occasione di crescita personale. Ogni azione intrapresa sarà quindi immancabilmente indirizzata verso il “bene comune”, ma dovrà essere anche conveniente, redditizia, remunerativa. Potremmo quasi evincerne che dove non ci sia un utile economico allora mancherà la possibilità stessa di fare del bene.
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In questa fase di pieno dispiegamento dell’industria turistica, superato anche l’ostacolo alla mobilità globale rappresentato dalla pandemia, il discorso pionieristico dei grandi enti del Terzo settore, ormai fatto proprio dalle maggiori istituzioni cittadine, sembra arrivato al culmine della sua parabola: come una trama di fondo solida e affidabile, esso incrocia e sorregge le politiche pubbliche, incoraggiandole a proseguire nella direzione intrapresa, quella della privatizzazione, della deregolamentazione, della crescita illimitata. È il film che si proietta in ogni convegno, dibattito, inaugurazione in cui i partner istituzionali si danno appuntamento – il sindaco, il vescovo, il rettore, la giornalista, il manager del Terzo settore, l’assessora, il sociologo, l’architetto, il prete imprenditore – per condividere in pubblico le loro convergenti testimonianze. Ma se solo si cominciano ad analizzare i fenomeni, ad ascoltare le persone, a connettere i rari studi a disposizione, lo stesso film ci appare da una prospettiva diversa, con tutti i suoi elementi al rovescio, come se lo guardassimo dall’altro lato dello schermo.
L’azione degli enti del Terzo settore, anche di quelli che dispongono di maggiori risorse, nonostante una progressiva espansione, resta per il momento subordinata alle scelte dei poteri pubblici, i quali, orientando in un senso o nell’altro le risorse comuni – umane e finanziarie –, hanno ancora la possibilità di incidere in modo determinante sugli assetti economici e sociali delle comunità. I grandi enti possono fornire modelli e stimoli, influenzando anche profondamente i rappresentanti politici, ma il grosso delle risorse e la titolarità delle decisioni restano in capo a chi amministra la cosa pubblica. Di questo, i maggiori dirigenti del Terzo settore hanno una chiara consapevolezza: “Il Fondo [per il contrasto della povertà educativa minorile] – ha scritto Marco Rossi-Doria, presidente dell’impresa sociale Con i bambini – è una grandissima opportunità […], ma nonostante i complessivi oltre 600.000.000 di euro messi a disposizione è necessario che tali pratiche diventino politica pubblica; con ben altre risorse, partendo dalla messa a sistema di quelle ordinarie, con una visione temporale più lunga e articolata e ascoltando i bambini/e, i ragazzi/e, il territorio”⁴. E così padre Antonio Loffredo: “Con il Terzo settore non possiamo risolvere le cose. Possiamo dare dei segni di speranza, fare dei piccoli laboratori per far capire che è possibile. Non dobbiamo mai stancarci di farlo, ma chiaramente è lo Stato che ha le chiavi del cambiamento strutturale”⁵.
È innanzitutto per questo, come abbiamo visto, che i grandi enti indirizzano gli sforzi del loro “fare politica” verso il campo dei decisori pubblici con l’obiettivo di influenzarne le scelte secondo i propri interessi e valori. In ogni città, nei singoli quartieri, l’insieme dell’azione associativa costituisce un potenziale fattore di vitalità, uno stimolo alla mobilità sociale e alla partecipazione civica; nella realtà, però, questa azione si spinge raramente oltre un orizzonte paternalista, garantito dall’alto, in cui le priorità sono stabilite da chi detiene il denaro e il potere. Le pratiche informali, che pure mostrano come sia possibile la solidarietà tra pari, la partecipazione diretta, la messa in discussione degli assetti dati, restano ancora troppo episodiche e isolate per fornire una base su cui provare a costruire delle alternative. Nel suo complesso, l’azione associativa non è stata in grado in questi anni di incidere sulle condizioni di vita, sulle diseguaglianze strutturali, sulla subalternità culturale degli strati marginali della popolazione; questo perché non ha voluto (Terzo settore) o non è stata capace (gruppi informali) di produrre trasformazioni politiche di più ampio respiro.
Nel frattempo, la conformazione spiccatamente imprenditoriale che hanno assunto i maggiori enti del Terzo settore, e molti di quelli intermedi, ha trasferito sul piano della convenienza economica, della competitività, della reputazione mediatica, ogni aspetto dell’azione associativa che li riguarda. Nei grandi enti, questo tipo di azione si è sempre più differenziata, affiancando all’abituale sfera socio-assistenziale l’intervento in nuovi settori di mercato; questo senza rinunciare alla consolidata rete filantropica che continua a fruttare loro donazioni, finanziamenti diretti e in generale un’abbondanza di risorse che, tra le altre cose, li colloca in una posizione di vantaggio rispetto agli operatori con cui sono direttamente in competizione. A Napoli queste prassi hanno trovato un terreno fertile nel contesto economico, culturale e politico generato dall’impatto del turismo di massa sul centro storico della città.
La dimensione imprenditoriale assunta da questi enti ha però bisogno di essere continuamente alimentata e per farlo è necessario che il contesto in cui essa fiorisce si espanda, allargando indefinitamente i propri confini. A Napoli questo significa che i grandi enti del Terzo settore, che abbiamo definito ultracorpi, sono stati e sono tuttora tra i più attivi e convinti sostenitori della diffusione dei flussi turistici in ogni interstizio della città. La responsabilità di questa espansione incontrollata, come abbiamo visto, ricade in gran parte sulle istituzioni pubbliche, mentre i costi, le “esternalità negative”, gravano sulle spalle di chi presta lavoro nei gradini più bassi della fabbrica del turismo; e poi su quei nuclei familiari esposti senza tutele alla riconversione turistica dell’abitare e all’impennata dei valori immobiliari; ricadono inoltre sulla generalità dei residenti, che si trovano a dover dividere risorse e servizi, già cronicamente scarsi, con un gran numero di visitatori temporanei divenuti nel giro di poco tempo l’oggetto d’attenzione privilegiato dei loro governanti.
I grandi enti, che pure avrebbero relazioni influenti e uditori qualificati per farsi ascoltare, di questi “effetti collaterali” non parlano. Il loro discorso non contempla lati oscuri, contraddizioni, problemi non risolti. È liscio, levigato, percorso da una sottile euforia: come una lieve scossa elettrica, che riattiva il corpo ma non fa danno. L’emancipazione, nella loro visione, si conquista innanzitutto nel cimento imprenditoriale. La mobilità sociale si realizza attraverso un processo di selezione naturale. Il loro modo di “fare politica” è quindi rivolto verso un obiettivo ben preciso: la preparazione del terreno più propizio allo sviluppo delle imprese; innanzitutto le loro, ma inevitabilmente anche quelle degli altri.
Molti enti del Terzo settore sono infatti imprese a tutti gli effetti (o consorzi di imprese, o incubatori di imprese) e, come tali, perseguono innanzitutto i propri interessi. Le maggiori, come abbiamo visto, tendono ad allargare i propri confini sommando, all’attività educativa e assistenziale, altri campi d’azione e settori di mercato. Per farlo si dotano di apparati sempre più sofisticati di comunicazione e propaganda, che lentamente fanno sparire, sotto un’accattivante cortina di fumo, i dati concreti, gli obiettivi reali, i referenti ultimi del loro agire. Quando si legano ai poteri pubblici, lo fanno, come tutte le aziende, seguendo le proprie convenienze. E Napoli non fa eccezione. Nella città in preda a repentini cambiamenti, queste imprese si battono per conquistarsi un posto al sole; la loro attività è votata al servizio dello stesso processo che sta determinando l’impennata del costo della vita e dei valori immobiliari, la precarietà lavorativa, l’espulsione degli abitanti dai quartieri storici, la requisizione dei già esigui spazi pubblici per la cittadinanza. I puntuali benefici vantati dalla loro azione, scolorano di fronte ai danni strutturali arrecati da questo processo a una platea molto più vasta di quella dei loro “beneficiari”.
Inoltre, questi ultracorpi non si limitano a fare impresa, ma con sempre maggiore convinzione ambiscono a “fare politica”, ovvero a estendere i propri metodi e valori in ambiti ancora più vasti. Essi dichiarano di lavorare per il bene comune, ma gli interessi che descrivono come generali, se si getta lo sguardo appena fuori dal loro giardino, si sovrappongono in molti casi a quelli perseguiti da un manipolo di imprenditori che, nel contesto della “città del turismo”, stanno accumulando influenza e profitti attraverso l’allargamento dell’area del lavoro irregolare e della precarietà abitativa.
I grandi enti pensano di poter rimediare all’illegalità, alla speculazione, allo sfruttamento diffusi nell’industria del turismo semplicemente attraverso il buon esempio. Ma l’affermata virtuosità di questi enti, per esempio sul piano della regolarità dei rapporti di lavoro, non si trasmette per contagio – come essi invece lasciano intendere – ad altri enti o imprese attive negli stessi ambiti o territori. Come l’azienda di moda dell’imprenditore napoletano Mario Valentino, che negli anni Settanta esportava i suoi prodotti nei lussuosi atelier di Parigi e New York, vantando l’impiego di trecento dipendenti con regolare contratto nel moderno stabilimento delle Fontanelle alla Sanità, così oggi questi grandi enti incassano le lodi e i riconoscimenti internazionali portando in alto il nome proprio e quello dei loro quartieri; ma come la fabbrica delle Fontanelle era attorniata da decine di bassi e sottoscala dove uomini e donne della Sanità fabbricavano scarpe e borse in nero, inalavano collanti e si buscavano la polinevrite, così i grandi enti fingono di ignorare che la “rinascita” dei loro quartieri si sta realizzando sulla pelle della manodopera sfruttata nell’industria del turismo e su quella di anziani e famiglie senza risorse, che spesso vi abitano da generazioni e si vedono costretti a lasciare i propri appartamenti per fare posto ai turisti.
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¹R. Furfaro, La buona scuola. Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza, Feltrinelli, Milano 2022, p. 229.
²A. Polito, Paranza & C. I nuovi santi della Sanità, in inserto “Buone notizie” del “Corriere della Sera”, 18 giugno 2019, p. 6.
³F. Sabella, Intervista a Ernesto Albanese: «Iniziamo a gestire il Comune come un’azienda di servizi», in “il Riformista”, 16 novembre 2021.
⁴M. Rossi-Doria, Una comunità che apprende, in R. Quaglia, Quartiere educante. L’esperienza della Scuola diffusa nei Quartieri spagnoli di Napoli, Zeroseiup, Bergamo 2022, p. 10.
⁵G. Renzi, Dal rione Sanità un modello di sviluppo, in “L’Osservatore Romano”, 11 settembre 2023.
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