La recente sentenza della Cassazione n. 33303/2024 consente di approfondire il tema dell’imputazione temporale, nell’ambito del reddito d’impresa, dei canoni di locazione non riscossi.
Nel caso di specie, la società contribuente aveva stipulato, nel 2008, alcuni contratti di locazione.
In relazione all’esercizio 2009, l’importo fatturato dalla società (e dichiarato ai fini IRES) risultava inferiore al corrispettivo previsto dal contratto.
Dalla sentenza si desume, in particolare, che il canone inizialmente concordato tra le parti (e risultante dal contratto) era stato ridotto.
Tale riduzione era motivata, nella sentenza di primo grado, da “difficoltà finanziare sopraggiunte” e comprovata da “emissione di note di credito”.
Peraltro, come si evince dalla sentenza di secondo grado, il fatto che le parti avessero raggiunto un accordo in merito alla riduzione del canone risultava confermato dal fatto che:
– vi era corrispondenza tra i ricavi delle vendite e delle prestazioni risultanti dal bilancio della locatrice e i costi per il godimento di beni di terzi risultanti dai bilanci delle società conduttrici;
– nel 2010 erano stati stipulati nuovi contratti di locazione con le medesime controparti, il cui corrispettivo (risultante dal contratto) risultava inferiore a quello pattuito nel 2008.
Ciò detto, l’Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione, con riferimento al periodo d’imposta 2009, l’importo non fatturato.
Secondo l’Amministrazione finanziaria, in particolare, i ricavi dichiarati avrebbero dovuto corrispondere ai canoni di locazione risultanti dai contratti. I canoni maturati per competenza e non riscossi avrebbero, poi, dovuto essere dedotti come perdite su crediti.
La contestazione derivava presumibilmente dal fatto che la riduzione non era supportata da un accordo scritto tra le parti (la sentenza fa riferimento ad “asserite modifiche contrattuali”).
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e cassato la sentenza della Commissione tributaria regionale, che aveva incentrato le sue valutazioni soltanto sui criteri che regolano l’IVA, senza tener conto del principio di competenza che regola, invece, le imposte sui redditi, nonostante l’avviso di accertamento fosse stato emesso anche in riferimento a IRES e IRAP.
La Cassazione ha evidenziato, quindi, che, in tema di redditi d’impresa, i ricavi derivanti da canoni di locazione devono considerarsi conseguiti, ai sensi dell’art. 109 comma 2 lett. b) del TUIR, alla data di maturazione dei medesimi.
Deve, peraltro, essere data continuità all’orientamento della stessa Corte, in base al quale, fino all’eventuale risoluzione del contratto, i canoni di locazione non possono essere qualificati come componenti positivi di cui non sia certa l’esistenza o la determinazione dell’ammontare (e, quindi, devono considerarsi imponibili, ndr), a prescindere dalla concreta corresponsione (Cass. n. 11556/2018).
A ben vedere, tale sentenza si riferiva a un caso di mancata percezione di canoni per morosità del conduttore (e, quindi, diverso da quello esaminato dalla Cass. n. 33303/2024). Nella specie, peraltro, mancavano provvedimenti giurisdizionali a comprova dell’assunta morosità.
Lo stesso principio è stato successivamente confermato dalla pronuncia della Cassazione n. 30372/2019, ad avviso della quale, nel caso di specie (in cui la società locataria si era resa inadempiente), i canoni di locazione avrebbero dovuto essere iscritti nel bilancio della contribuente (locatrice) e avrebbero dovuto concorrere a formare il reddito imponibile fino all’ordinanza di convalida di sfratto per morosità (con cui era stata dichiarata la risoluzione dei contratto di locazione); (si veda “Canoni di locazione non riscossi tassati fino alla convalida di sfratto” del 22 novembre 2019).
Analogamente si è pronunciata, da ultimo, la Cassazione n. 22906/2020 con riferimento a un caso in cui, in base al contratto di locazione, per gli anni successivi al primo rinnovo, il canone veniva aumentato secondo determinati parametri previsti nel contratto stesso. Tale maggior canone non veniva assoggettato a imposizione dalla società locatrice, in quanto non percepito.
I giudici di legittimità hanno accolto il motivo di ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ad avviso della quale, per scongiurare l’imponibilità, il contribuente avrebbe dovuto dimostrare l’eventuale modifica del contratto volta a porre “nel nulla” la clausola di attribuzione del maggior canone.
Per completezza di argomento, si ricorda che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 83 del TUIR dal DL 244/2016 (conv. L. 19/2017), l’art. 109 comma 2 del TUIR si applica, a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015, soltanto in riferimento ai soggetti che non adottano il principio di derivazione rafforzata.
Tuttavia, quanto riportato assume rilievo anche per i soggetti che adottano tale principio, in quanto, con riguardo ai criteri di imputazione temporale delle prestazioni di servizi di durata, i principi contabili nazionali fanno “riferimento a parametri conformi a quelli già previsti dal TUIR e, cioè, alla maturazione” (circ. Assonime n. 14/2017, parte II, § 2.2.1).
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