La necessità di un’informazione accurata non è mai stata così grande

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Damien Lewis, collega britannico, è molto più di un giornalista. È un esploratore, un avventuriero, una sorta di operatore umanitario aggiunto ma, soprattutto, un uomo di un coraggio e di un’onestà intellettuale fuori dal comune. Nel corso della sua vita professionale, infatti, non si è mai risparmiato. È stato in zone di guerra, a contatto con ogni sorta di orrore e, nel 2000, ha persino aiutato una ragazza di etnia nuba a fuggire dalla schiavitù in cui era stata costretta a vivere dalla famiglia di uno spregiudicato diplomatico sudanese a Londra, dopo essere stata venduta dalla sorella di sua moglie.

Da Andy Rocchelli a Mario Paciolla, passando per Cecilia Sala e i giornalisti palestinesi massacrati a Gaza, in quest’intervista parla dell’importanza dell’informazione in un mondo in guerra, dei rischi che corrono coloro che si dedicano a questa professione con serietà e del perché sia sempre più indispensabile, onde evitare che nell’oscurità possano prosperare i regimi e verificarsi le peggiori nefandezze. Gliene siamo grati, soprattutto perché, come c’era da aspettarsi, non ha usato parole di circostanza.

Hai viaggiato per il mondo, in particolare in zone drammatiche ed estremamente pericolose. Cosa spinge un giornalista ad avventurarsi in certe regioni dell’Africa o dell’Asia, pur sapendo che i rischi sono alti e le protezioni, nonostante l’esperienza, i visti diplomatici e la massima cautela, piuttosto scarse?

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La spinta è quella di riportare la verità. Soprattutto quando si fa un reportage da zone che sono così raramente coperte dai media tradizionali. In un certo senso, più la zona è pericolosa e la location fuori dai sentieri battuti, più è necessario fare un reportage da lì. Quelle sono di default i contesti più emarginati e dimenticati, pertanto la necessità di esplorarli e raccontarli è maggiore.

Come la nostra Cecilia Sala, fortunatamente rilasciata dopo ventuno giorni, sei stato arrestato più volte. Hai mai avuto paura di non farcela, di perdere la vita o, in ogni caso, di tornare a casa in condizioni molto diverse da quelle in cui eri partito?

Sì, spesso. Ma la necessità di far uscire la storia il più delle volte supera la paura. È questo che ti fa andare avanti e tornare in zone del mondo che sono piene di rischi.

In una recente intervista a “La Stampa”, hai dichiarato: “La guerra non è mai neutrale, e non si dovrebbe mai essere così imprudenti da considerarla tale, nemmeno quando la si guarda dall’esterno”. Si dice che la prima vittima di ogni guerra sia la verità: perché il potere la teme così tanto?

Coloro che dicono la verità al potere sono i più temuti dai potenti. È semplice. Ma se coloro che lo fanno diventano i bersagli dei potenti per averlo fatto, allora l’oscurità e la perdita delle nostre amate libertà diventano reali.

In che modo i servizi segreti cercano di interferire nella vita e nel lavoro di un reporter di guerra?

È un dato di fatto che i giornalisti vadano in posti difficili per fare domande difficili e raccogliere informazioni. Ciò li rende maturi per il reclutamento nel lavoro di intelligence. Fornisce anche una copertura perfetta. Ciò non significa che tutti i giornalisti, o anche molti, svolgano un doppio ruolo. Ma ce ne sono stati alcuni. Sono stato contattato in passato. Ho sempre rifiutato. Educatamente. La vera indipendenza è la più grande forza del giornalista.

Uno dei casi più controversi in Italia riguarda Mario Paciolla, l’operatore umanitario delle Nazioni Unite trovato impiccato in Colombia. Il rischio è che il caso venga archiviato dal Tribunale di Roma, ma i genitori non credono affatto alla teoria del suicidio. Come puoi vedere, non sono solo i giornalisti che vanno oltre le linee a essere fastidiosi, ma chiunque affronti la prima linea e vada oltre le verità ufficiali, qualunque sia la sua professione…

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Sì, esatto. Nel mio lavoro ho spesso scoperto che gli operatori umanitari sono i primi ad arrivare nelle zone pericolose e gli ultimi ad uscirne. Spesso proprio gli ultimi, così coraggiosi! E per quello che vedono possono essere potenti informatori. Ho conosciuto molti casi del genere. Questo a sua volta li rende dei bersagli. I genitori di Mario devono esigere la verità. Niente di meno.

Sempre su “La Stampa”, hai affermato che i giornalisti in trincea a volte si sentono quasi immortali. Quanto coraggio ci vuole per avventurarsi in certe zone e compiere determinate azioni? Diciamo che sei anche un po’ spericolato…

Beh, penso che quando porti la telecamera – nel mio caso, soprattutto una telecamera a pellicola – hai la sensazione di tenerla sempre accesa, non importa cosa accada. Questa diventa la tua ragion d’essere, la tua armatura. Ti dà un senso di immortalità. Francamente, se vieni colpito e ucciso il tuo girato continuerà a vivere dopo di te – forse anche i fotogrammi dei tuoi ultimi respiri. Ricordo che una volta in Birmania, nel profondo delle linee, a me e al mio cameraman venne detto che il nemico era dall’altra parte del fiume, nella giungla, ma dovevamo attraversarlo, perché erano da tutte le parti ed eravamo terribilmente in inferiorità numerica. Scendemmo lungo la riva fino al fiume, aspettandoci di essere fatti a pezzi. Il mio obiettivo principale era tenere la telecamera accesa. Diventa come un talismano.

Il mondo è travolto dalle guerre. I conflitti si stanno diffondendo ovunque, i più noti sono quelli in Ucraina e in Medio Oriente. In Ucraina, e nello specifico nel Donbass, nel 2014 sono stati assassinati il ​​fotoreporter Andy Rocchelli e il suo interprete Andrej Mironov; a Gaza è in corso una strage di giornalisti palestinesi. Qualunque cosa si pensi di questi conflitti, qui è in gioco il ruolo dell’informazione a livello globale. Qual è la sua opinione in merito?

La necessità di un’informazione accurata, ben documentata e verificata dai professionisti del settore non è mai stata così grande. Viviamo in un’epoca di disinformazione sempre più generata ad arte: questo è pericoloso, e il fatto che i reporter siano sempre più visti come un bersaglio, quando riferiscono da zone di guerra o aree sensibili, non fa che aumentare questo mix volatile.

In conclusione, le chiedo di ricordare uno degli episodi più significativi della sua vita, ovvero quando ha aiutato Mende Nazer, una ragazza Nuba che era stata rapita dal suo villaggio anni prima, a fuggire dalla famiglia sudanese che la teneva in schiavitù. Come vi siete conosciuti? Come siete riusciti a mettere in atto il piano di fuga e a farle ottenere asilo politico nel Regno Unito? Cosa le ha lasciato la sua storia, che ha raccontato anche in un libro intitolato “Schiava”?

Il piano di fuga era semplice: un sudanese in esilio che viveva a Londra l’avrebbe fatta uscire dalla casa del diplomatico dove era tenuta prigioniera. Io sarei stato lì con una telecamera accesa, ma non al momento del salvataggio, perché ovviamente questo avrebbe potuto far scattare l’allarme. Poi è stata portata di corsa nello studio di un’avvocata per presentare la sua richiesta di asilo, prima che qualcuno potesse provare a catturarla di nuovo. Quando il governo britannico ha cercato di rifiutarle l’asilo sulla base del fatto che “la schiavitù non è motivo di asilo”, le urla di indignazione sulla stampa britannica li hanno costretti a cambiare idea. Questo è il potere dei media, per Dio e per il cambiamento!

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