L’aumento dei costi energetici sta mettendo in ginocchio il sistema imprenditoriale italiano. Mentre negli Stati Uniti il neopresidente Trump ha iniziato a smantellare le politiche di tutela ambientale per dare una spinta ulteriore al settore energetico, in Italia i prezzi del gas sono tornati alle stelle, rischiando di mettere fuori gioco le nostre imprese. Secondo le aziende, infatti, la competizione si è fatta insostenibile non solo con le rivali d’oltreoceano, ma anche con quelle europee, al punto che solo un intervento urgente sui prezzi dell’energia potrebbe restituire sostenibilità al sistema produttivo nazionale. Se il problema riguarda in generale tutte le imprese italiane, la situazione è particolarmente critica per quelle energivore. Un caso emblematico è quello dell’Acciaieria di Terni, il cui piano di rilancio definito dal gruppo Arvedi al momento dell’acquisizione rischia di frenare bruscamente davanti a questi ostacoli.
Già nel 2024, il prezzo medio dell’energia all’ingrosso in Italia si attestava a 108,5 euro/MWh, una cifra nettamente superiore a quella di altri Paesi europei: in Germania il costo era inferiore del 38 per cento, in Spagna del 72 per cento e in Francia dell’87 per cento. Il 2025 è poi iniziato con un nuovo rialzo, pari a circa il 50 per cento rispetto alla media dello scorso anno. In un’audizione alla Camera dei deputati, Confindustria ha stimato che se i prezzi rimarranno a questi livelli per tutto l’anno, il danno alle imprese sarà pari a 10 miliardi di euro. Il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha definito questo incremento “una pazzia”, ribadendo l’urgenza di un intervento prima che sia troppo tardi. “Serve fare presto, non è possibile pagare il 43 per cento in più di energia in un anno. Occorre costruire un percorso di salvaguardia delle imprese, perché l’energia significa salvaguardia dell’industria e del sistema Paese”, ha detto Orsini in un video pubblicato sui social.
A peggiorare il quadro contribuiscono anche le prime decisioni assunte dall’amministrazione Trump, che rischia di avvantaggiare ulteriormente le imprese statunitensi ampliando il divario con le italiane. Tra i suoi primi ordini esecutivi, infatti, il presidente Usa ha dato il via libera alle trivelle per estrarre più gas e petrolio, anche nelle zone finora protette come le riserve naturali dell’Alaska. Senza arrivare agli estremi trumpiani, le principali associazioni di categoria italiane stanno preparando una lettera aperta indirizzata a Parlamento, governo e regioni per chiedere soluzioni concrete al problema energetico, a partire dall’introduzione del meccanismo di “decoupling”. Questo “disaccoppiamento” permetterebbe di separare il costo dell’energia elettrica da quello del gas naturale, con un notevole risparmio sulla maggior parte dei costi in bolletta. Un’altra proposta avanzata dalle imprese è l’attuazione della cosiddetta “gas release”, ovvero la fornitura di gas a prezzi calmierati per le aziende energivore. Questo strumento sarebbe particolarmente necessario per le realtà più dipendenti dal gas naturale, come le cartiere.
Tra le aziende più penalizzate, nei giorni scorsi il gruppo Arvedi ha lanciato un appello pubblico attraverso i maggiori quotidiani nazionali. L’azienda ha chiesto interventi mirati, a partire dalla differenziazione dei costi dell’energia a seconda delle fonti utilizzate per produrla. “È necessario intervenire sul meccanismo della formazione del prezzo, evitando che alle famiglie e alle imprese venga conteggiato il costo delle quote CO2 quando il produttore fornisce energia di origine eolica, solare e idrica”, ha detto Dimitri Menecali, amministratore delegato di Arvedi Ast. Attualmente, invece, tutte le fonti energetiche sono considerate sullo stesso piano, anche se alcune producono nettamente meno emissioni di altre. Il gruppo ha sollecitato anche una revisione generale del sistema di calcolo del prezzo dell’energia, attualmente basato sul costo della centrale a gas meno performante anziché sulla media di tutte le centrali energetiche.
Il caro energia sta mettendo a rischio anche i piani di investimento dell’Acciai Speciali Terni (AST) definiti dal gruppo Arvedi al momento dell’acquisto tre anni fa. “Il perdurare di questa situazione di distorsione del mercato sta facendo perdere ordini all’Arvedi AST e può quindi mettere a rischio il mantenimento dei livelli occupazionali che Arvedi AST vuole ad ogni costo garantire”, ha proseguito Menecali. Al problema energetico si collega strettamente la questione legata alle centrali idroelettriche di Terni, originariamente costruite per alimentare lo stabilimento siderurgico. Queste centrali sono diventate pubbliche con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, ma all’acciaieria è stato promesso un indennizzo che non è mai arrivato. In questo senso, la richiesta di Arvedi sarebbe almeno quella di rendere disponibile a prezzi più competitivi l’energia prodotta localmente, non solo a beneficio dell’acciaieria ma di tutte le imprese e le famiglie del territorio.
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