Vini, picco di export del Prosecco in Usa: «Corsa alle scorte per paura dei dazi di Trump»

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Federico Nicoletti

Per il vino veneto balzo di vendite a novembre: nel 2024 +19 per cento sull’anno precedente. E l’industria cerca soluzioni

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Export, imprese di fronte al rebus Stati Uniti. Mentre il fantasma dei dazi, che spinge a far scorte, già fa vivere al Prosecco un boom a novembre, subito dopo l’elezione a presidente di Donald Trump: l’export degli spumanti italiani è salito del 41% per cento a volume – per l’89% riferibile al Prosecco – e del 29% a valore, 54 milioni di euro, 47 dei quali riferibili alle «bollicine» veneto-friulane. Rischiano di diventare la nuova incertezza che dovranno affrontare le aziende, le condizioni di accesso al mercato americano, che è tra quelli di riferimento per l’export veneto: nel 2023 ha garantito vendite per 7,5 miliardi di euro e per 5,3 nei primi nove mesi 2024, terza destinazione dietro a Germania e Francia.

Il boom d’Oltreoceano

La cerimonia d’insediamento di Trump di lunedì non ha rivelato nulla di nuovo su questo fronte. Salvo che gli aggiustamenti che le imprese già fanno per anticipare gli esiti vanno avanti. Un primo esempio riguarda il Prosecco. Unione italiana vini, la principale associazione di categoria del settore, ha rilevato come il balzo degli acquisti di vini italiani a novembre, in una «corsa alle scorte in previsione dei dazi», sia stato l’ultimo dei fattori che ha rilanciato lo spumante veneto nel 2024: il +19%, di volumi spediti Oltreoceano ha permesso al Prosecco di superare lì in 11 mesi i risultati dell’intero 2023, con 450 milioni di euro in valore, +15%, e 98 milioni di litri. «Il picco di ordini non trova precedenti per gli spumanti a novembre», dice il segretario generale di Uiv, Paolo Castelletti. «La buona notizia è che gli americani non rinunciano ai nostri vini, la cattiva è che i dazi incombono», aggiunge il presidente, Lamberto Frescobaldi.




















































«Speriamo non ci siano dazi sul Prosecco»

Questione di peso anche per il Veneto. Gli Usa, con quasi 600 milioni di euro, per Veneto Agricoltura, sono il 20% dei 2,8 miliardi di export vinicolo 2023. Prima posizione anche negli spumanti, 342 milioni su 1,2 miliardi, e seconda nei vini fermi in bottiglia 330 milioni su 1,4 miliardi. E la ripresa negli Usa nel 2024 ha contribuito ai nuovi record.«L’export dovrebbe raggiungere per la prima volta i 3 miliardi», dice Giorgio Polegato, presidente di Coldiretti Treviso e della Consulta regionale vitivinicola.
Ripresa, ad esempio con i 660 milioni di bottiglie della Doc, +7,1%, su cui i dazi potrebbero abbattersi come un maglio. «Per ora siamo alle minacce e il quadro resta favorevole – commenta il presidente del Consorzio Prosecco Doc, Giancarlo Guidolin -. Vedremo: l’auspicio è che si ripeta quanto visto con la prima amministrazione Trump, quando non vi furono dazi sul Prosecco. Siamo fiduciosi». Rischi che, quanto messo in magazzino ora rallenti comunque le vendite? «Quello – aggiunge Guidolin – eventualmente lo potremo capire a primavera».

L’incertezza dell’industria

Ma, oltre il vino, il nodo incertezza sui dazi negli Usa riguarda tutta l’industria. Pur se la situazione è diversa tra grandi e piccole imprese e tra settori. «A rischiare di più sono i prodotti del Made in Italy realizzabili solo in Italia, dall’alimentare alla moda. Diverso è per i prodotti industriali di aziende medio-grandi, che prima o poi una decisione su produzioni localizzate la dovranno prendere», ragiona Massimo Pavin, alla guida di Sirmax, l’azienda del chip plastico alla base di beni in settori come l’automotive e gli elettrodomestici, presente negli Usa da dieci anni, dove realizza 80 dei 400 milioni di fatturato, dopo aver investito 70 milioni negli stabilimenti.

L’ipotesi di produzione in loco

I dazi potrebbero essere la molla che impone la scelta di aprire produzioni in loco. Che, ora, entro la nuova cornice, potrebbe valere doppio: «Siamo già stati chiamati da una serie di clienti, tra cui la filiale americana di Samsung. Ci ha detto di tenerci pronti a crescere i volumi di fornitura: sono consci di dover aumentare la produzione degli elettrodomestici negli Usa – aggiunge Pavin -. Gli incentivi per insediarsi non mancano; il punto è che per un ingresso negli Usa bisogna esser strutturati, anche per inviare propri dirigenti laggiù. Per una piccola impresa, se non integrata in una filiera, vedo difficile potersi permettere una simile mossa».

«Usa mercato in cui investire»

«Gli Stati Uniti sono comunque un mercato difficile, in cui pensare non tanto di esportare, ma di investire. La prospettiva dei possibili dazi accelera questa necessità», aggiunge Andrea Olivi, presidente della holding WeDo, che raggruppa le società dell’arredamento che fanno capo agli eredi di Ettore Doimo. Settore, l’arredamento, che dovrà per forza cambiare paradigma, se vorrà tentare di metter piede negli Usa. E WeDo, che realizza oggi 7 milioni di fatturato Oltreoceano, pensa, tra quest’anno e il prossimo, ad un ingresso con un partner. «Pensiamo di entrare in società di distribuzione o produttive in aree che ci interessano e di trasferire il nostro know how, in una soluzione che andrà calibrata a seconda delle occasioni che ci si presenteranno», spiega Olivi. E per lui, da avvocato d’impresa esperto anche di contratti internazionali, ci sono anche formule legali che possono risultare utili alle imprese un po’ più piccole per tentare il salto: «Si può pensare a rapporti di licenza o ad agire con gruppi contrattuali, attraverso scambi di azioni, con formule legali previste sia in Italia che negli Usa. L’importante è che gli investimenti siano diretti, in maniera meno rischiosa, sul fronte operativo e che lo strumento permetta di decidere velocemente».


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22 gennaio 2025 ( modifica il 22 gennaio 2025 | 11:11)

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