Sulle pensioni la vera partita è la natalità. Parla Mauro Maré

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Il sistema attualmente è sostenibile, dunque nessun allarme. Ma nel lungo termine bisognerà invertire la rotta e intervenire sulla demografia, o qualcosa potrebbe rompersi. Nel mentre, si potrebbe aumentare la libertà di scelta su quando uscire dal lavoro. Intervista a Mauro Maré, economista e professore ordinario di Scienza delle Finanze alla Luiss

22/01/2025

La buona notizia è che la disoccupazione è ai minimi storici, al 5,7%. Quella cattiva è che l’Italia invecchia e si fanno pochi figli. Tirando le somme, la spesa per le pensioni continua a crescere, mentre il versamento dei contributi si assottiglia, nonostante il contributo dell’immigrazione regolare (su 5 milioni di residenti stranieri, 3 milioni e 460 mila sono contribuenti. Un numero vale su tutti.

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Nel 2023, secondo le rilevazioni della Ragioneria Generale dello Stato, la spesa pensionistica è aumentata rispetto al 2022 del 7,4%, attestandosi al 15,3% del prodotto interno lordo, uno dei più elevati d’Europa. E negli ultimi cinque anni è passata da 268 a 319 miliardi di euro con una crescita di quasi il 19%. Di più. Lo scorso anno la spesa pensionistica di natura previdenziale, dunque al netto dell’assistenza, è ammontata in Italia a 267,107 miliardi di euro, con un incremento di 19,53 miliardi (+7,88%).

Eppure, il sistema regge e reggerà, dicono molti osservatori, a patto che vi siano dei correttivi. Nei giorni scorsi, per esempio, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha spento sul nascere le voci che volevano un innalzamento dell’età pensionabile di tre mesi. Ma una riflessione, nel lungo termine, va fatta. Formiche.net ne ha parlato con Mauro Marè, economista e professore ordinario di Scienza delle Finanze, presso la facoltà di Impresa e Management, Università Luiss di Roma, e in passato consigliere economico dell’allora ministro Pier Carlo Padoan

Sembra si voglia congelare, almeno per il momento, l’innalzamento (tre mesi) dell’età pensionabile, quest’ultima frutto dell’adeguamento dell’aspettativa di vita. Come reputa un simile orientamento? E, soprattutto, parliamo di una questione sostanziale o marginale per la spesa pensionistica, al netto della rilevanza politica?

Il sistema è sostenibile ma dobbiamo fare attenzione. Con il forte invecchiamento della popolazione, l’età diventa una variabile molto importante, per tenere in equilibrio i conti. Io penso che per evitare questa discussione senza fine sull’età, la si possa liberalizzare all’intero di un certo range, lasciando liberi gli individui di scegliere. Naturalmente, determinando l’importo dei trattamenti in funzione degli anni che si passeranno in pensione. Ci sono tre aspetti, comunque, da considerare.

Quali sono?

Il primo riguarda il funzionamento dei sistemi a ripartizione. I contributi versati dagli attivi, cioè i lavoratori attuali, sono usati per pagare contestualmente le pensioni dei non attivi, cioè gli attuali pensionati. I conti di chi paga, gli attivi, registrano i contributi versati ma sono virtuali e non c’è nessun accantonamento reale: questi saranno restituiti, da chi segue nella catena delle generazioni, dagli attivi delle coorti successive. In altri termini, nei conti dell’Inps non vi è alcuna accumulazione, perché i contributi pagati mensilmente dagli attivi sono trasferiti come pensioni a chi non lavora più. I lavoratori hanno maturato delle legittime” aspettative sulle prestazioni future, avendo la percezione che pagando i contributi acquisiscano davvero il diritto a ricevere una pensione più o meno legata ai contributi versati. Siccome i contributi versati nel corso della vita lavorativa sono usati nei sistemi pubblici a ripartizione come imposte, per pagare annualmente le pensioni, i conti individuali nozionali del sistema a ripartizione non sono liquidi, ma registrano solo le somme versate.

C’è poi un secondo e anche un terzo aspetto da considerare?

Sì. Un secondo aspetto è che in un sistema a ripartizione i diritti acquisiti semplicemente non esistono. I diritti possono essere garantiti solo a condizione che vi siano sufficienti lavoratori e redditi in futuro. Il grande vantaggio di un sistema a capitalizzazione è che le risorse vengono realmente accantonate in conti individuali: ciò crea effetti positivi sul risparmio e gli investimenti nell’economia, sui diritti di proprietà delle somme accumulate, riducendo il trasferimento dell’onere pensionistico sulle generazioni successive. Il terzo aspetto è il conflitto generazionale.

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Vale a dire chiamare in causa i giovani, che spesso pagano per i più anziani…

Un sistema pensionistico come quello italiano produce, quando i numeri tra chi paga e chi riceve cambiano, un evidente conflitto tra generazioni, tra padri e figli, di cui si delineano adesso chiaramente i contorni. V’è un limite fisiologico a scaricare i costi sui giovani, perché si sottrarranno in qualche modo al prelievo, scapperanno, emigreranno o evaderanno.

Marè, lo scorso anno la spesa pensionistica di natura previdenziale è ammontata in Italia a 267,107 miliardi di euro, con un incremento di 19,53 miliardi (+7,88%). Molti osservatori dicono che nonostante tutto il sistema è ancora sostenibile. Ma nel lungo termine?

Il sistema è ancora sostenibile ma dobbiamo stare attenti e vigilare sugli andamenti economici e demografici. Con questa demografia il sistema potrebbe trovarsi presto in difficoltà. Un tasso di fecondità (numero medio di figli per donna) di 1,2 ma con una speranza di vita che si colloca tra gli 85 e 90 anni, previsioni ufficiali largamente ottimiste sul numero di attivi e sul tasso di crescita del Pil, rendono urgenti interventi di manutenzione.

Non sembra un buon programma…

Avremo un numero ridotto di attivi, cioè chi pagherà i contribuiti e le pensioni, e un numero molto maggiore di anziani che vivranno più a lungo per effetto del forte aumento della longevità. I giovani non fanno figli soprattutto per ragioni culturali e gli stimoli fiscali e monetari funzionano sempre meno. Se si fa il primo figlio (se lo si fa…) a 35 anni, quante risorse ci saranno per il welfare in futuro? Chi pagherà i contributi?

Lei ha spesso sostenuto la necessità di incentivare l’adesione alla previdenza complementare, come i fondi pensione. Quali i possibili strumenti?

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Innanzitutto, vanno ribadite le ragioni dei fondi pensione. I fondi pensione funzionano con il metodo della capitalizzazione, cioè le risorse sono accumulate con accantonamenti reali e investite nei mercati finanziari. C’è un aumento dei diritti di proprietà, le risorse sono investite nell’economia, con un effetto positivo sul potenziale di crescita, e si riduce il trasferimento dei costi sulle giovani generazioni.

Volendo entrare nel merito?

Ci sono diversi strumenti possibili per far crescere le adesioni. Sicuramente il primo è quello di potenziare gli incentivi fiscali – ad esempio, riducendo l’aliquota del 20% sui rendimenti. Misure serie di rafforzamento dell’educazione finanziaria e di ampliamento della conoscenza della previdenza complementare possono essere molto utili. Le campagne vanno però mirate soprattutto sui social media, che sono i luoghi frequentati dalle giovani generazioni. Escludendo l’opzione della adesione obbligatoria, resta infine, l’alternativa dell’iscrizione semi automatica, iscrivendo per default i lavoratori ai fondi pensione di riferimento.



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