«Connessi a morte»: chi comanda nella guerra ibrida che mescola informatica e informazione

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“Connessi a morte” (ed. Donzelli) il saggio di Michele Mezza, giornalista, inviato per il Giornale Radio Rai in Urss e in Cina, docente dell’Università Federico II di Napoli e direttore del centro di ricerca sul mobile PollicinAcademy, è un libro agile e stimolante che fa riflettere sull’uso dell’informazione nella nostra vita a partire dalla tragica esperienza della guerra ibrida.

Lo scambio di notizie che si identifica con la logistica militare, manomette il senso comune dell’avversario, proiettandoci nel regno delle “non cose” in cui la realtà è ingoiata dal software e dal potere computazionale, una realtà in cui gli stessi giornalisti diventano un “capitolo” della cyber security e la professione un elemento essenziale della sicurezza prima che della libertà degli stati.

L’intervista

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“Connessi a morte” è un’immagine forte, che disorienta. Credevamo che la tecnologia fosse uno strumento di libertà ed emancipazione, non di oppressione e di guerra. Michele Mezza può almeno tentare di spiegarci cosa sta accadendo?

Che per la prima volta le procedure e tecniche civili diventano base per il combattimento militare, mentre fino ad oggi era stata la guerra che anticipava le tecnologie che poi sarebbero state adottate nella vita ordinaria. La principale di queste tecnologie che io considero ormai vera e propria logistica militare è appunto la connettività che rende ogni singolo utente un bersaglio da parte di chi controlla dati e piattaforme, come abbiamo visto nel clamoroso caso dei cerca persone degli Hezbollah.

Algoritmi è la parola chiave di questa delicata fase dello sviluppo scientifico e tecnologico. Di questo lei si era già occupato in un precedente lavoro. Come va governata e disciplinata questo inedito “potere computazionale”?

Innanzitutto dovremmo chiederci da dove viene questo potere cosi eccentrico e impalpabile, che attraverso l’ottimizzazione delle nostre attività arriva a pianificare tutta la nostra vita. Penso che l’origine sia una domanda sociale di individualizzazione, di differenza, dopo il lungo secolo delle affinità indistinte e della cultura e della produzione di massa indotta dal fordismo. Se ognuno di noi pretende di avere servizi, informazioni, prestazioni e prodotti on demand, solo una gigantesca automatizzazione può rispondere a questa domanda. Di conseguenza chi si è appropriato di due fattori essenziali in questa riorganizzazione antropologica che sono i dati e la potenza di calcolo comanda. Il nodo da sciogliere riguarda proprio la condivisione e la negozialità di questi due fattori: Come si possono contrattare e chi è in grado di farlo? Le norme sono utili ma non risolutive: la tecnologia cambia troppo velocemente per farsi ingabbiare da una legge.

Guerra, media e democrazia, questo fitto intreccio domina la storia. I conflitti in corso che cosa ci insegnano?

Vedo una trasformazione spettacolare, che attraversa ogni aspetto della nostra vita, da quelli più drammatici quali sono appunto le guerre, a quelli più ordinari. Al centro di questa trasformazione non c’è una crisi, ossia un momento di emergenza che poi ci riporta allo stato iniziale, ma una transizione che ci conduce verso un mondo nuovo, dove ogni nostro comportamento è supportato, e integrato da protesi digitali che amplificano e orientano la nostra volontà. In questa transizione nulla rimane come prima: né la guerra, che diventa calcolabilità di ogni rischio, né i media, che sono sempre più immersi in un mare di fonti manomesse e verosimili, né tanto meno la democrazia, che si trova ad adeguarsi ad un corpo elettorale sempre più selezionato e guidato non più dalle tradizionali agenzie sociali, come erano la scuola, la fabbrica o i partiti, ma da comunità digitali in cui alcuni calcolanti dirigono masse di calcolati. In questo caos indistinto risuona l’interrogativo che arrovella Alice nel paese delle meraviglie e che attraversa la trattazione: chi comanda?

La profilazione del nemico cambia il dna del conflitto

Ucraina e Medio Oriente sono due ferite aperte che minacciano la pace a la tenuta dell’Europa. Che insegnamento dobbiamo trarre da tanta morte e distruzione?

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Con uno slogan si potrebbe dire che oggi si combatte come si vive, e si vive come ci si informa, scambiando segni e sogni. Sia in Ucraina che a Gaza noi vediamo come ormai gli aspetti più terribili della guerra siano sempre la conseguenza di un’azione di profilazione del nemico. Per la prima volta in duemila anni, nelle battaglie ognuno è in condizione di guardare in faccia al suo avversario, per quanto numeroso possa essere. Le armate e le popolazioni sono profilate, uno per uno, e si decide, ferocemente, a mente fredda chi e come colpire. La guerra è la plastica dimostrazione di come i calcolanti prevalgano sui calcolati. Per questo il sistema di connettività, monitorato dai dispositivi di geo referenzazione, come i satelliti di Elon Musk, sono le vere armi che permettono di censire il fronte avversario. L’altro aspetto dei conflitti in corso è quello che si definisce la “Guerra Ibrida”, ossia quella strategia di manomissione delle informazioni e dei racconti che disorientano il paese avversario. Come scrive il capo di stato maggiore Gerassimov, oggi si combatte interferendo nel senso comune del paese avversario. E qui entra in gioco la cybersecurity che diventa la base di ogni relazione sia individuale che geo politica, e il giornalismo che diventa un capitolo della guerra ibrida e impone a noi giornalisti di ridefinirci, partendo proprio dalla domanda di Alice: chi comanda?

A proposito di giornalisti. La “cassetta degli attrezzi” degli operatori dell’informazione che si muovono nei teatri di una guerra sempre più tecnologica sta cambiando. L’Ordine consapevole dei processi di mutamenti in atto, sta persino ipotizzando di modificare il codice deontologico che regola l’esercizio della professione. Che scenari si aprono?

Vedo ancora una distanza abissale fra la velocità dei processi di trasformazione del giornalismo, che vive una vera e propria Mediamorfosi e la capacità di interpretazione e adeguamento della categoria di cui faccio parte. Come figure professionali siamo figli di una cultura che legava il giornalismo, ossia la mediazione nella distribuzione delle notizie e del loro senso alla sfera della libertà e della distinzione dei poteri. Adesso mi pare che si sia dinanzi a una rivoluzione copernicana, per cui lo scambio di informazione viene decentrato ad ogni singolo utente e diventa la materia prima per la competizione fra stati e interessi economici. A queste condizioni il giornalismo diventa gioco forza un capitolo della sicurezza di un paese.

Che bisogna riflettere e definire in fretta nuove regole basate sulle competenze e i saperi che sono gli unici fattori che possono assicurare l’autonomia e l’indipedenza dell’informazione. Persino nelle forze armate, il settore apparentemente più subalterno al potere politico, ci sono regole che rendono quel mondo protagonista delle proprie decisioni, proprio in virtù delle competenze e abilità che esprimono. Insisterei molto sul complesso rapporto che deve intercorrere tra informatica e informazione: un giornalista che oggi non padroneggia, direttamente i codici digitali, per selezionare e validare, fra le tante possibili, le fonti autentiche, rischia di essere subalterno, sottomesso, in una parola non libero di raccontare i fatti.

La potenza di calcolo tende fatalmente a tradursi in dominio e controllo politico. Dobbiamo rassegnarci alla presenza di guerre diffuse e permanenti, ibride, sfumate non convenzionali e quindi anche difficili da sedare?

Faccio il cronista e non il guru, per cui non provo nemmeno a cimentarmi nelle previsioni. Quello che, da cronista, mi pare evidente, è che siamo nel pieno di un sistema relazionale che si chiama guerra ibrida che non finirà tanto presto. La guerra ibrida è il nuovo sistema di convivenza, in cui categorie, interessi, interi paesi, tenderanno a prevalere alterando le nostre percezioni. Cambridge Analytica fu il primo grande episodio di questo gioco di illusioni ed elusioni. Non a caso dopo 10 anni ci troviamo ancora Trump presidente. Questa volta lo ritroviamo al potere insieme ad un grande mago della Guerra Ibrida come Elon Musk, figura emblematica del modello di società che si sta profilando. Voglio in conclusione ricordare un episodio che riguarda casa nostra: l’affondamento del Bayesan, la barca dei misteri che quest’estate si è inabissata dinanzi alle coste siciliane. Su quella barca viaggiavano grandi agenti calcolatori, capaci di determinare con i propri codici il destino di centinaia di milioni di esseri umani. Ancora non abbiamo capito cosa sia successo. Sappiamo solo che quando è affondata quella barca per quattro giorni sono stati sospesi i combattimenti in Ucraina e a Gaza. Nel “mondo del Bayesan” il mistero rimane fitto.

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Introduzione: Cybersecurity dalla pace alla guerra

Un tempo si diceva che il battito d’ali di una farfalla a Hong Kong potesse provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Oggi dovremmo convenire che un trillo ai dispositivi digitali in Libano ha colpito al cuore la società digitale, proiettandola in una permanente zona d’ombra dove spettri e individui si cercano per ingannarsi, o per uccidersi, individualmente, estraendo dalla folla un volto, oppure colpendo un’intera comunità, decimando un’intera milizia, mediante la manomissione delle protesi più intime che oggi sono i terminali di comunicazione mobile.

La guerra non è più solo mercato, e neanche laboratorio, ma un sistema di relazioni personali, semantiche, un vocabolario di linguaggi e codici comunicativi tesi a illudere e mentire. Oggi si combatte esattamente come si vive, e viceversa, con uno scambio permanente di segni e di sogni, che spesso diventano incubi. Lo abbiamo visto con la gigantesca operazione di intercettazioni e carotaggi illeciti che hanno coinvolto circa 800 000 cittadini italiani, fra cui le più alte cariche dello Stato.

Uno scandalo che per certi versi appare non meno dirompente, per la credibilità delle istituzioni, di quanto produsse Mani pulite all’inizio degli anni novanta. Allora era in discussione la trasparenza del sistema politico, oggi con la vulnerabilità cibernetica è stata colpita l’efficienza delle istituzioni nel tutelare la sicurezza della popolazione. Nella società digitale, dove ogni azione è indotta da una combinazione fra naturale e artificiale, fra umano e macchina, proprio la linea di saldatura fra queste due forme di vita è il punto di frequenza, potremmo dire, attaccato da coloro che vogliono manomettere il sistema.

La schiacciante vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane dimostra come sia possibile ridisegnare un elettorato, mediante una strategia di realtà aumentata, o di post verità, come si dice. La connettività, quello spazio digitale in cui si ritrova la stragrande maggioranza di una popolazione, è oggi il punto di attacco che permette di pianificare una rivoluzione dall’alto, che autorizza un leader a creare il proprio popolo. La tecnologia non sostituisce gli interessi materiali, ma permette di interferire sulla loro interpretazione, intensificandone aspetti decisivi come appunto la contrapposizione radicale con le istituzioni. La scelta di campo di una consistente parte della Silicon Valley a favore del neopresidente risponde esattamente alla necessità di avere mano libera che avvertono i gruppi tecnologici impegnati ormai con investimenti che non contemplano il fallimento ma nemmeno la moderazione nello sfruttamento delle nuove forme di tecnologie emotive, come sono diventate le soluzioni di intelligenza artificiale.

Il potere dei calcolanti pretende di avere la piena complicità delle istituzioni e degli utenti, i calcolati. Le istituzioni, innanzitutto, ma anche ogni singolo cittadino, come professionista, imprenditore, nonché formatore o giovane da formare, devono oggi ripensare il modo di tutelare la propria sicurezza.

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Non possiamo più, e lo vedremo meglio più avanti, continuare a riprodurre il vecchio modello degli esperti e dei consulenti. Ogni decisore, a tutti i livelli, deve essere autonomo e sovrano sul piano della propria organizzazione digitale. Il sapere cibernetico, come la capacità di organizzazione civile e militare del paese, deve essere un sapere non importato da altre intelligenze né appaltato ad altre soggettività.

Né il tempo né lo spazio, filtrati dalle protesi digitali, sono quello che ci ricordiamo, ma sono diventati dimensioni di una continua ricostruzione tecnologica, riprogrammata dall’intelligenza artificiale. Nulla di quanto accade, per quanto stupefacente e avveniristico, potrà mai essere osservato nel suo assetto iniziale: il presente è un futuro concentrato, e l’esperienza che stiamo vivendo decade subito in un’inadeguata archeologia del già visto. 

Vince chi sa attraversare il continuo shock dell’aggiornamento, dove dominano con ritmi stressanti l’inedito e l’inspiegabile. 



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