Viaggio tra le umane passioni attraveso l’antico rito del del teatro con “Tragùdia / Il canto di Edipo”, uno spettacolo di Alessandro Serra (che firma scene, luci, suoni e costumi oltre a drammaturgia e regia) liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito, con traduzione in lingua grecanica di Salvino Nucera e voci e canti a cura di Bruno De Franceschi, produzione Sardegna Teatro / TRIC, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Fondazione Teatro Due Parma, in collaborazione con la Compagnia Teatropersona e I Teatri di Reggio Emilia, in cartellone – in prima regionale – lunedì 20 gennaio alle 20.30 al Teatro Comunale di Sassari (per gli spettatori sarà aperto il parcheggio interno con ingresso gratuito da viale Mameli) e da mercoledì 22 fino a domenica 26 gennaio al Teatro Massimo di Cagliari (tutti i giorni da mercoledì a venerdì alle 20.30 – turni A, B, C; sabato alle 19.30 – turno D e domenica alle 19 – turno E e venerdì 24 gennaio doppio spettacolo con la replica pomeridiana alle 16.30 – turno P) sotto le insegne della Stagione 2024-2025 da La Grande Prosa organizzata dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, della Regione Autonoma della Sardegna, del Comune di Cagliari e del Comune di Sassari e con il contributo della Fondazione di Sardegna.
Sotto i riflettori Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini e Felice Montervino incarnano i protagonisti di un dramma antico, creature insieme reali e simboliche, in un’opera originale basata sul testo delle tragedie classiche e sulle fonti letterarie, ideata e elaborata fin nei minimi dettagli da Alessandro Serra, uno degli artisti più interessanti della scena contemporanea, con la collaborazione di Chiara Michelini per i movimenti di scena, Stefano Bardelli per il disegno luci, Gup Alcaro per i suoni e Serena Trevisi Marceddu per i costumi, realizzazione scene a cura di Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu e Loïc Francois Hamelin, tecnico del suono Alessandro Orrù, direzione tecnica di Giorgia Mascia e direzione di scena di Luca Berettoni, per far rivivere la forza espressiva e la potenza catartica di una rappresentazione nata per la polis agli inizi del Terzo Millennio, dopo la caduta degli dèi. «In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta» – sottolinea il regista – «soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco».
Una pièce visionaria con la cifra raffinata dell’artefice del “Macbettu” (vincitore del Premio ANCT 2017 dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro e del Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo dell’anno; del Premio Golden Mask – Oslobodenje e del Premio “Luka Pavlović” theater critics al MESS Festival di Sarajevo e del Premio ETI / Le Maschere del Teatro italiano come miglior spettacolo nel 2019) che si confronta con il linguaggio immaginifico e poetico della tragedia greca e con gli archetipi della mitologia antica per raccontare la storia di Edipo, il “figlio della fortuna” accecato dalla hybris e precipitato dalla gloria alla polvere. Nell’indagare la dimensione del sacro di un’arte dedicata a Dioniso, dio dell’estasi e dell’ebbrezza, Alessandro Serra (Premio Hystrio 2019 per la regia) sceglie la figura emblematica del vincitore della Sfinge, figlio di re ma esposto sul monte alla mercé di belve e intemperie a causa di una terribile profezia, salvato dai pastori, cresciuto in una reggia e destinato al trono, che recatosi a Delfi per risolvere il mistero delle sue origini cerca di sfuggire al destino svelato dall’oracolo e finisce invece per adempierlo, ignaro, rendendosi reo di parricidio e incesto. Un nobile e coraggioso eroe, perfino temerario e dal temperamento irruente, non dissimile dal padre con cui si scontra in un crocevia di strade e che involontariamente uccide, un uomo di stirpe regale che sfida la sorte e va incontro all’ignoto, ma si fa strumento della vendetta di un dio inverando una funesta predizione: colui che risolve l’enigma della Sfinge e diviene così sovrano di Tebe e sposo di Giocasta, sua madre, fino all’ultimo non (ri)conosce la verità. “Tragùdia” di Alessandro Serra è la sintesi di due capolavori di Sofocle, in cui è descritto il trionfo e poi la rovina del figlio di Laio, poi il suo percorso di espiazione e purificazione: il salvatore della città, da sovrano illuminato e amante del suo popolo, si impegna a far luce sulle cause di una nuova peste e rifiutandosi di dare ascolto a consigli e preghiere insiste nella folle impresa, per ritrovare su di sé il marchio della colpa e infine avviarsi verso un volontario esilio lontano dalla patria e dai suoi simili, cercando rifugio nei dintorni di Atene.
«”Edipo re” è la storia dell’Uomo che giunge a un risveglio interiore dopo aver attraversato il dolore ed essersi ricongiunto all’infanzia» – sottolinea Alessandro Serra –. «In lui gli opposti si affrontano e riconciliano. Principe e trovatello. Salvatore della polis che risponde a un indovinello per bambini. Solutore di enigmi che non conosce sé stesso. Re e capro espiatorio. Prescelto e reietto. Figlio e marito. Padre e fratello, Edipo l’incestuoso. Edipo il parricida, che per amore della conoscenza discende alle radici marce del suo albero genealogico. Circondato dalla luce nera della tragedia riconosce sé stesso e si acceca strappandosi gli occhi che non hanno saputo vedere la verità. In un verso sublime Stazio svelò il senso profondo dei miti di accecamento il dio che getta l’oscurità sugli occhi, fa scendere tutta la luce nel cuore».
L’antico dramma si chiude sulla disperazione e l’amarezza dell’eroe, dopo la terribile catastrofe abbattutasi su di lui e sulla sua famiglia, e sul suo volontario esilio. «Dopo trenta anni dalla prima rappresentazione il vecchio sacerdote Sofocle sente la necessità di chiudere il ciclo iniziatico del suo eroe e scrive “Edipo a Colono”» – prosegue Alessandro Serra –. «Discesa all’Ade e resurrezione. Giunto a Colono Edipo mostra agli spettatori le orbite vuote dei suoi occhi, il suo corpo vecchio e indifeso, la sua povertà, i suoi anni trascorsi nella miseria. Un percorso nel dolore che, guidato dalla figlia Antigone, lo condurrà alla conoscenza dei segreti della vita e della morte. Cammina senza guida in direzione del bosco sacro alle Eumenidi e in un bagliore luminoso, si congiunge agli dei, conquistando così, come Krishna, la liberazione da questo mondo materiale. L’impuro scacciato da Tebe diventa a Colono un essere sacro. Prima di svanire nella luce ci lascia in eredità la parola Amore». L’unica parola capace di «dissolvere tutti questi tormenti».
Sulla falsariga degli antichi tragediografi, Alessandro Serra in “Tragùdia” reinventa la forma di un teatro di poesia, dove parole e gesti, suoni e visioni compongono una “scrittura di scena” capace di affascinare e emozionare lo spettatore, permettendogli di immergersi nelle atmosfere e immedesimarsi nei personaggi, condividendone le sofferenze e le gioie, fino a raggiungere l’auspicata catarsi. Un’opera contemporanea e insieme arcaica, per cui il regista sceglie di utilizzare una lingua desueta, il grecanico, per ritrovare il ritmo ipnotico dei versi nella traduzione del poeta Salvino Nucera, affidandosi al musicista e compositore Bruno De Franceschi per reinventare una partitura sonora che privilegia il canto e restituisce la funzione drammaturgica del coro attribuendo alla melodia il compito di evocare atmosfere e stati d’animo, e tutta la complessità e le contraddizioni della natura umana.
«Ripartiamo da Artaud: creare miti, ecco il vero oggetto del teatro» – afferma Alessandro Serra –. «Il teatro non ha creato i miti, ma se ne serve per ribadire in scena la loro forza psichica. Il rito del teatro riaccende il mito, infiamma gli archetipi, sprigiona energie. La tragedia è mito che si fa teatro: non ci sono i sentimenti ma gli archetipi dei sentimenti. La forma del sentimento che è sentimento puro. Un involucro corporeo vuoto. Come se l’attore potesse creare con il proprio corpo uno spazio acustico. Ciò che risuona è un’emozione collettiva, un’energia vibrante che esiste fuori dal tempo e dalla storia. Non ci sono storie né personaggi, ma miti ed eroi. La tragedia ha a che fare col sacro e dunque non può che essere arcaica. Che non significa archeologica. Maurizio Bettini lo ha detto chiaro e tondo: “Ciò che in termini moderni assume la forma di una forza psicologica, nel linguaggio del mito si esprime come fato”. Lo stesso vale per le fiabe. Dare forma a qualcosa di antico in un mondo nuovo e in perenne mutazione. Una forma formante. E una volta creata la forma, farla vibrare, in coro».
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