Pensionamenti anticipati: il populismo di Cgil e Lega e gli insostenibili ondeggiamenti del ministro Giorgetti

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Sui pensionamenti anticipati si delinea una strana alleanza tra la Cgil di Landini e la Lega di Salvini nel segno del populismo ma colpiscono anche gli sbandamenti del ministro dell’Economia che finora aveva resistito alle tentazioni del suo partito

“Certi amori non finiscono/ Fanno dei giri immensi e poi ritornano – cantava Antonello Venditti ai tempi d’oro – Amori indivisibili, Indissolubili, inseparabili”. È un po’ la storia che accomuna la Lega e le pensioni di anzianità. In verità il Carroccio è subentrato in una liaison della Cgil con il pensionamento anticipato, da quando Cipputi – pur restando iscritto alla Confederazione “rossa” – ha cominciato a votare Lega.

Il trattamento di pensione anticipata costituisce da cinquant’anni la via d’uscita dal lavoro dell’operaio maschio, residente al Nord, che ha iniziato a lavorare a 15 anni o poco più, lo ha fatto in maniera continuativa e che si è trovato intorno all’età di 50 anni in condizione di andare in quiescenza, a prescindere dall’età anagrafica.

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La riforma Dini e il primo cambiamento

Ovviamente questa condizione non poteva restare immutata a fronte delle variazioni imponenti dell’attesa di vita. Così – dopo alcuni tentativi di correzione falliti – la riforma Dini del 1995 introdusse a fianco del requisito contributivo, di 35 anni, anche un limite di età che da 52 anni sarebbe arrivato gradualmente a 58 anni, fatto salvo un “liberi tutti” con 40 anni di anzianità contributiva. Questa tipologia di accesso alla pensione (tipica dei baby boomers) è stata difesa con determinazione dai sindacati, in particolare dalla Cgil, fino a quando – sul piano politico e parlamentare – è scesa in campo anche la Lega nel ruolo di partito di carattere territoriale che difende le ragioni dei lavoratori settentrionali dalle grinfie di Roma “ladrona” e dall’assistenzialismo dei terroni. E, nel tempo, non è stata una difesa da poco.

Il governo Berlusconi e le tensioni sociali

Il primo governo Berlusconi nel 1994 fu travolto dalle proteste dei sindacati contro un tentativo di disincentivare sul piano il pensionamento anticipato. Le iniziative di lotta fornirono alla Lega – sotto la regia del Quirinale – il pretesto per sfilarsi dalla maggioranza. Quando Roberto Maroni arrivò al Lavoro venne imboccata la formula degli incentivi a rimanere in servizio in aggiunta ad un ritocco dei requisiti, ma il raggiungimento dei 40 anni di anzianità restava sempre la via diretta per il pensionamento a prescindere dall’età anagrafica.

Tra i punti della lettera della BCE del 5 agosto 2011 – che mise con le spalle al muro di uno spread divenuto insostenibile l’ultimo governo di Silvio Berlusconi troneggiava la possibilità di “intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012″.

Su questa indicazione non fu possibile schiodare la Lega dalla consueta contrarietà, così dopo un’estate passata a convincere – inutilmente – i mercati, Berlusconi decise di dimettersi il 12 novembre. La decisione che venne resa esecutiva quattro giorni dopo con l’insediamento del Governo Monti, che incaricò il ministro Elsa Fornero di recuperare credibilità attraverso una riforma rigorosa della previdenza che partisse da un giro di vite sull’età pensionabile e sui requisiti del trattamento anticipato, secondo le indicazioni della BCE.

La riforma Fornero e gli esodati

In verità la professoressa prestata alla politica non pensò di stravolgere il mondo. Si limitò ad includere nei requisiti l’ipocrisia delle finestre che separavano anche di molti mesi la maturazione del diritto dall’erogazione della prestazione, ad estendere ai requisiti per il trattamento di anzianità l’aggancio automatico all’attesa di vita che i suoi predecessori avevano applicato all’età pensionabile, anticipò dal 2024 al 2018 la parificazione dell’età di vecchiaia per le donne a quella prevista per gli uomini.

L’accelerazione dell’andata a regime dei requisiti determinò l’incidente dei c.d. esodati (ovvero di persone che avevano accettato extraliquidazioni a copertura di prepensionamenti prendendo a riferimento le regole previgenti e che lamentavano quindi di trovarsi per un certo periodo senza reddito né pensione.

La vicenda finì nelle mani di una campagna di stampa truffaldina che diede argomenti alla campagna di disinformazione e di allarmismo alimentata dalla Lega, il solo partito che non aveva appoggiato il governo Monti e votato la riforma Fornero.

In seguito, i governi successivi realizzarono ben nove sanatorie per gli esodati consentendo a 200mila lavoratori di andare in quiescenza con i requisiti preriforma (per un onere di 13 miliardi a regime), ma non si azzardarono a demolire quella riforma che godeva di tanta considerazione sui mercati.

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La stagione di quota 100

Limitarono così la loro iniziativa nell’individuazione di percorsi paralleli di accesso al pensionamento (Ape sociale + Rita, precoci/quarantunisti, condizioni di disagio lavorative e famigliari, opzione donna), fino a quando dopo le elezione del 2018 giunsero al potere le forze politiche che avevano combattuto con ogni mezzo la riforma del 2011. Nella maggioranza giallo-verde che sosteneva il Conte 1, il M5S si portò a casa il RdC, mentre la Lega sfoggiò l’idea di quota 100 (ovvero di una possibilità di uscita anticipata facendo valere due requisiti: almeno 62 anni di età e 38 di anzianità contributiva) allo scopo di favorire l’occupazione tramite il turn over anziani/giovani. La misura aveva carattere sperimentale e restava in vigore per un triennio fino a tutto il 2021. Questi obiettivi però riescono solo in parte: nel triennio gli accessi effettuati tramite la “magica” quota 100 si attestano sulla metà di quelli previsti (900mila); ma soprattutto la maggioranza dei soggetti che se ne avvalgono sono costretti a farlo con requisiti anagrafici e contributivi superiori a quelli previsti.

Il motivo è intuitivo; i due requisiti sono rigidi e vanno fatti valere nello stesso momento. Può succedere dunque che una persona si trovi ad avere 38 anni di contributi prima di avere 62 anni o viceversa; pertanto, è naturale che chi debba aspettare la maturazione di un requisito ancora incompleto si trovi nella condizione di veder crescere anche l’altro. Infatti, i lavoratori che accedono a pensione con la quota minima (62 anni di età e 38 anni di anzianità) sono circa il 9 per cento del totale mentre la percentuale di soggetti che accedono con 38 anni di anzianità è del 16 per cento.

In generale, l’anzianità contributiva con cui i lavoratori si sono presentati al pensionamento (facendo valere i requisiti per quota 100) è elevata; oltre il 65 per cento degli interessati vanta 40-41 anni di servizio. Di converso, anche l’età anagrafica lievita in parallelo. Si è rivelata più sicura e vantaggiosa l’altra misura adottata nel dl n.4 del 2019 ovvero il blocco fino a tutto il 2026 del requisito del pensionamento ordinario di anzianità a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne.

Può sembrare paradossale ma i dati confermano: le generazioni baby boomers che vanno in pensione in quegli anni arrivano a maturare, specie se uomini, un’anzianità di servizio importante ad una età inferiore ai 62 anni necessari per adire a quota 100. Ciò è tanto più vero quando nella fase di transizione, alla scadenza di quota 100, il governo Draghi passa a quota 102 (64 + 38). Basta pensare che nel 2024, l’età anagrafica media alla decorrenza per il trattamento anticipato è pari a 61,7 anni: il che significa che è molto più consistente la platea di coloro che si sono avvalsi del trattamento ordinario bloccato e a prescindere dall’età anagrafica di coloro che sono rimasti nel solco delle quote. A questo punto però c’è un colpo di scena: nella legge di bilancio per il 2024 il governo Meloni anticipa al 2025 la scadenza del blocco e ripristina il collegamento automatico all’incremento dell’attesa di vita, che – secondo l’Istat – nel 2025-2026 è pari a zero. Pertanto i requisiti restano immutati: 67 anni di età e almeno 20 di contributi per la vecchiaia, 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne a qualsiasi età per l’anzianità. Ma il 2017 è in agguato e tutti i simulatori prevedono un incremento che la legge limita al massimo a tre mesi.

Il futuro delle pensioni

Anche l’Inps è tenuto non già a decidere – come è stato detto – quali saranno i requisiti nel 2027, ma ad effettuare una previsione che tenga conto di quelle della demografia, affinché possa effettuare una simulazione nel caso concreto di qualcuno che vada ad informarsi su quando varcherà la fatidica soglia della quiescenza. Non ci sono stati né scandali né invasioni di campo da parte dell’Istituto, ben consapevole della procedura che affida ad un decreto interministeriale, fatti gli opportuni accertamenti ad ogni biennio, l’eventuale aggiornamento dei requisiti. Fino a quel momento non si muove foglia, ma essendo operazione regolata dalla legge, un suo adempimento impone una copertura. Tutti sappiamo che la Cgil ha aperto una polemica strumentale seguita ruota dalla Lega che ha riscoperto il mai sopito amore per il pensionamento anticipato.

Persino Giancarlo Giorgetti – il ministro delle Finanze dell’anno – ha ipotizzato una sterilizzazione del meccanismo virtuoso che aveva riattivato l’anno scorso. Giorgetti è il ministro che manipolando quota 103 ha praticamente rese proibitiva quella via d’uscita. Immaginiamo che sia consapevole degli effetti economici di un ri-congelamento dei requisiti per il trattamento anticipato negli anni a venire quando andranno in pensione le ultime generazioni del baby boom in regimi tuttora prevalentemente retributivi e quindi con età anagrafiche di poco superiori ai 60 anni mentre l’attesa di vita, ancorché non monitorata, continuerà a crescere. È la solita storia: “amor che a nullo amato amar perdona”.

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