Fact checking addio, anche Google contro la Ue: ecco la posta in gioco

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Inappropriata e inefficace: questa è la definizione della politica sui fact checkers data da Kent Walker, degli affari globali di Google. Anche Google e YouTube, quindi, vanno verso le community notes.

Le big tech USA fanno quindi blocco contro il Digital Service Act e il codice di condotta contro la disinformazione, usato, in epoca covid, come clava per la selezione dei contenuti.

Più libertà di espressione?  Forse, ma di certo meno influenza della politica UE (e ancor meno degli Stati membri) nei social e nei motori di ricerca. Vediamo gli scenari.

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I fact checkers nel mirino: qual è la posta in gioco

Dopo X – precursore – e Meta, anche Google e YouTube si pongono in aperto contrasto con la scelta europea di governare il mondo della rete e di influenzarne i contenuti mediante una scrematura “di qualità”.

Il fact checking, ossia la possibilità di affidare a un soggetto terzo e qualificato la verifica della veridicità di un post, di una notizia o di un video, è sempre stato considerato un elemento di sicurezza per l’utente finale della piattaforma.

Un soggetto qualificato verifica il contenuto, che poi viene “valutato” dai moderatori della piattaforma; almeno fino a ora.

Il brusco revirement politico USA ha cambiato le carte in tavola, perché il passaggio di Twitter – ora X – a Elon Musk ha determinato un primo spostamento del modo di intendere la moderazione sui social in particolare e sulle piattaforme online in generale.

Se, infatti, prima di Musk – e con Joe Biden alla presidenza USA – Twitter era il parco giochi dei giornalisti mainstream e dell’amministrazione dem USA, ora è X è il precursore del taglio dei costi determinato dalla moderazione e dal fact checking, lasciato al libero mercato degli utenti e al loro libero apprezzamento tramite le community notes.

Il sistema della moderazione e del fact checking è molto “polite”, ma è estremamente costoso e limitante nel business, perché le community notes impongono all’utente di interagire di più con ogni singolo post e di restare più tempo sulla piattaforma per verificare la fonte.

Solo taglio di costi e business? Si, in gran parte, ma non solo.

Come abbiamo già avuto modo di vedere per Meta, in ballo c’è ben di più, ossia l’egemonia dell’informazione, con un netto sorpasso delle piattaforme online sui media mainstream tradizionali.

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Scenari e implicazioni

Ora che il fronte delle big tech è compatto sotto l’egida di Donald Trump con Elon Musk come corifeo, dobbiamo attenderci situazioni impensabili fino a ieri, con una profonda rivisitazione del sistema Europa sotto molti aspetti – e l’informazione globalmente intesa è uno dei punti cruciali.

Per quanto burocratizzata e attrezzata con apparati di controllo e sanzione come le Autorità garanti, l’Europa difficilmente può affrontare una sfida come quella posta dalle big tech unite e sostenute dall’amministrazione USA.

Lo scenario attuale, che vedrebbe un muro contro muro a colpi di sanzioni, non è sostenibile a lungo termine perché diventerebbe una guerra commerciale aperta con gli USA e perché l’Europa non ha l’equivalente della Silicon Valley.

Sotto il profilo tecnologico e digitale, infatti, il sistema UE non è neanche lontanamente competitivo con quello Usa che è egemone a livello globale.

Make Europe Great Again è lo slogan di Elon Musk: questo significa che è in atto un’Opa sul sistema di informazione europeo e sulle scelte politiche di fondo che determinano, anche, la struttura stessa delle istituzioni europee.

Qui si entra nella geopolitica in senso stretto: ma è del tutto evidente che il dominio Usa sulle piattaforme è quasi totale e che la Ue è totalmente dipendente da questo sistema, con tutte le implicazioni del caso.

Questo, ovviamente, al netto della stessa rete internet e dei satelliti che trasmettono i dati: Starlink (sempre di Elon Musk) è uno dei maggiori player di questa infrastruttura d cui, ancora una volta, l’UE è pienamente dipendente.

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Molti dei cavi sottomarini su cui “gira” internet, invece, appartengono notoriamente a Google.

Conclusioni

Il problema dei fact checkers è economico e politico; lato business sono un costo senza alcun fondamento economico per le piattaforme.

Sotto il profilo politico, sono soggetti la cui indipendenza è spesso stata messa in dubbio.

Ma prima ancora: a cosa servivano esattamente?

Alcuni soggetti nostrani, legati a note testate online, usano mettere in bella mostra la loro attività di fact checking: si tratta spesso di meme con immagini fuori contesto associate a situazioni contingenti.

Nulla di diverso da quanto accade – e si è visto – quando un telegiornale manda in onda immagini di repertorio senza darne conto.

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Il fact checking è stato spesso contestato perché ha determinato vera e propria censura, determinando una limitazione della libertà di espressione non giustificata da alcuna vera e propria qualifica, competenza o attribuzione giuridica.

Lo stesso può dirsi di molti giornalisti e opinionisti.

Lo scenario delineato dalle big tech è che saranno più gli influencer che gli opinionisti a determinare i trend dell’informazione futura: siamo sicuri, allo stato attuale, che ne sentiremo la mancanza o che vi sia una vera e propria esigenza di queste figure?

Piaccia o non piaccia, è tutto in mano all’utente: è davvero necessario pagare qualcuno per censurare un post in cui si afferma che la Terra è piatta?

Perché se questa è l’esigenza, il problema non sono né i social né l’informazione, ma la scuola, le famiglie tutto il sistema nel suo complesso.

Sistema che, date le premesse, sta per essere messo davvero a durissima prova.



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