‘Asura’, la miniserie a sorpresa di Hirokazu Kore-eda

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Disponibile dal 9 gennaio 2025 su Netflix, Asura, miniserie in sette episodi, segna il ritorno di Hirokazu Kore-eda sulla piattaforma dopo Makanai (storia di due sedicenni in trasferta a Kyoto per diventare geishe) e si consegna al pubblico come un esemplare di kuroyuri, il bellissimo e raro giglio nero giapponese, per la promozione pubblicitaria piuttosto defilata, perfettamente calata invero sullo stile minimalista del regista, sulle storie delicate ma non lievi dei suoi personaggi, su un approccio appena sussurrato alla realtà della vita con tutto il suo mistero.

Asura, infatti, costituisce l’ennesima (ma non per questo meno fresca e innovativa) messa in quadro dei conflitti famigliari al centro della filmografia del regista nipponico, avulsi da frizioni melodrammatiche e affrancati dagli schemi della narrazione codificata, che nel linguaggio della serialità trovano una più calzante composizione tonale: bugie, verità represse, tradimento, gelosia, desiderio di cambiamento, rassegnazione; sfumature oscillanti e simpatetiche che Kore-eda compendia nelle dinamiche non sempre armoniose di un ristretto e aggraziato nucleo femminile.

Father and daughters

Rivisitazione aggiornata di una serie televisiva giapponese del 1979, Like Asura (tratto da un romanzo di Mukoda Kuniko) che fece epoca in patria generando emulazioni e adattamenti per il piccolo e grande schermo, le vicende narrate da Kore-eda si collocano a Tokyo in quell’anno, componendo una panoramica di caratteri e sensibilità ispirati al significato della cosmologia buddista del titolo. Asura, infatti, è un’entità dai poteri occulti, sia benigni che maligni, come le protagoniste sono animate da conflitti interiori e scelte al bivio, pur nella loro compostezza e soavità.

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Saldo e stralcio

 

“Una giornata d’inverno, le quattro sorelle Takezawa — l’insegnante di ikebana Tsunako (Miyazawa Rie), la casalinga Makiko (Ono Machiko), la bibliotecaria Takiko (Aoi Yu) e la cameriera Sakiko (Hirose Suzu) — si riuniscono per la prima volta dopo tanto tempo. Takiko sospetta che il loro anziano padre, Kotaro, abbia una relazione e un figlio illegittimo. Anche se le altre sorelle trovano difficile crederlo, promettono di mantenere il segreto con la madre, Fuji. Tuttavia, questo evento porta alla luce conflitti e segreti nascosti nelle vite di ciascuna di loro”. [Trama ufficiale]

 

La commedia delle tragiche verità

In una distanza storica che è quasi azzerata, dove il 1979 pare già imbevuto del nostro presente, anche Tokyo quasi non esiste, se non per scorci residenziali di quartiere, per anonimi interni di locali, hotel, ospedali che trasfigurano un racconto squisitamente giapponese nell’universalità dei suoi intenti di ricezione, per un pubblico anche occidentale che in Asura apprezzerà nei drammi domestici delle quattro sorelle il tocco di Kore-eda, che non risiede nella poetica delle “piccole cose” (pur nella rifinitura di dettagli in una prosa delicatissima), ma nel registrare il flusso dell’esistenza che ci appartiene e ci sfugge al contempo, con una ritrosia enigmatica, in un’epifania inestricabile e perenne del qui e ora.

Perché, come recita la poesia Il papavero di Nostume Soseki, citata alla fine del terzo episodio:

La tragedia è meglio della comicità.

Miglio o riso?

Quella è comicità.

Quella donna o questa?

Quella è comicità.

Tutto è comicità.

Inglese o tedesco?

Quella è comicità.

Tutto è comicità.

Vita o morte?

Quella è tragedia.

L’equilibrio dei contrari

Asura, in fondo, è un mosaico umano di rispecchiamenti interiori, imperativi morali, disinneschi e bilanciamenti in una routine irrisolta e tra desideri compressi: l’assestamento dell’esistenza quando una finestra si apre all’improvviso e il vento scompagina tutto, talvolta provvidenzialmente.  In una ricerca formale che è miracolosa compenetrazione di generi, Kore-eda, come in Le buone stelle – Broker, infonde la comicità (buffa e radiosa) nel dramma e viceversa, in una schermaglia di temperamenti che è anche una commedia di caratteri femminili tersa e gentile, un gioco di dama di reazioni e azioni che la macchina da presa smuove con piani di ripresa più ad altezza d’uomo che ‘alla Ozu’, come già in Un affare di famiglia (Palma d’oro a Cannes nel 2018), per un prodotto finale che per coerenza autoriale, acutezza introspettiva e sensibilità agrodolce si può affiancare ai migliori film di Kore-eda.

Rifulge l’affiatato comparto di attrici, che senza eufemismi e con briose collisioni compongono una stralunata sciarada del sentimento di sorellanza e uno spaccato sociale sul femminino oltre qualsiasi confine, avvolgendo la miniserie con la loro bellezza madreperlacea, con la loro tenera leggiadria oltre gli inciampi, gli squilibri, l’inadeguatezza.

 

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