Una luce speciale abita le ombre più profonde, e viene – nella narrativa di Stig Dagerman – dal confronto con il dolore, dalla contemplazione dell’assurdo, dalla ricerca di senso laddove il senso sembra sfuggire. Con la sua scrittura tanto essenziale quanto delicata, l’autore svedese ci invita a percorrere i sentieri oscuri dove l’esistenza si svela nella sua nuda fragilità e in una struggente bellezza.
Questa straordinaria tensione tra luce e tenebra si riflette con forza nella raccolta L’uomo che non voleva piangere (traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, pp. 320, € 19,00) dove si trovano riuniti sedici racconti che ampliano e completano il panorama offerto da I giochi della notte (pubblicato in Italia nel 1996 nella traduzione di Carmen Giorgetti Cima).
Mentre spalanca una finestra sulla condizione umana e ne esplora i recessi più intimi, Dagerman mette in scena personaggi vulnerabili e tenaci, che cercano disperatamente di aggrapparsi a ciò che sfugge: l’amore, la felicità, il significato stesso della vita. Come uno specchio che riflette il volto di un’epoca devastata dalla guerra, il suo sguardo penetra nel cuore delle cose, rivelando l’intreccio indissolubile di splendore e dolore che si ritrova in ogni nostra esperienza.
Suicida a 31 anni
Esponente di spicco del «quarantismo» – corrente modernista che si sviluppò in Svezia negli anni Quaranta, profondamente segnata dal trauma della Seconda guerra mondiale – Dagerman affronta nei suoi scritti temi universali come l’alienazione, il terrore, la solitudine, tramite una poetica particolarmente abile nel combinare realismo e simbolismo, intrecciando riflessioni esistenzialiste a un’analisi acuta delle inquietudini dell’animo umano.
Autore prolifico nonostante la sua breve vita – si suicidò a trentun anni – Dagerman è celebre soprattutto per i suoi romanzi: Il serpente (1945), L’isola dei condannati (1946), Bambino bruciato (1948) e il reportage Autunno tedesco (1947), pietre miliari del suo percorso artistico, che si estende tuttavia ben oltre il romanzo, abbracciando con eguale maestria racconti, poesie, testi teatrali e reportage. La sua versatilità narrativa gli ha permesso di esplorare una vasta gamma di registri stilistici e tematici, spaziando dalle riflessioni intime sulle angosce personali fino a un’acuta analisi dei drammi collettivi generati dalla guerra e dalle sue devastazioni.
Tra i più sensibili interpreti della crisi dell’individuo moderno, Dagerman dedica particolare attenzione alla solitudine, alle tensioni intrinseche alle relazioni umane e all’alienazione sociale. Le sue opere riflettono con precisione le tensioni di un’epoca in bilico tra speranza e disillusione, offrendo un ritratto parlante della condizione umana. E proprio questa capacità di scandagliare i meandri dell’esistenza emerge con forza in L’uomo che non voleva piangere, che accanto ai racconti già editi ne presenta di nuovi, originariamente apparsi su giornali e riviste svedesi tra il 1941 e il 1953, anno della tragica scomparsa dell’autore.
La versione di Fulvio Ferrari, profondo conoscitore di Dagerman e già traduttore delle sue poesie e dei suoi romanzi, restituisce con maestria l’eleganza e la complessità della sua prosa, consentendo di coglierne appieno la profondità e le sfumature.
Presi insieme, tutti i racconti che compongono il volume disegnano una vera e propria cartografia dell’animo umano, tramite una scrittura non soltanto affilata ma anche carezzevole nel sondare l’amarezza della solitudine, e di tutto l’arco dei sentimenti messi in scena, che portano con sé tanto l’eco contingente di un’epoca brutalizzata quanto l’universalità dei nostri sentimenti.
Fra Strindberg e Kafka
Nel conferire dignità estetica anche alle esperienze più ordinarie e dolorose, la prosa di Dagerman denuncia le sue influenze letterarie, che pescano sia da autori scandinavi come August Strindberg e Eyvind Johnson a figure di rilievo della letteratura europea e statunitense, da Franz Kafka a William Faulkner. Nei racconti titolati «Il processo», «Il condannato a morte», «L’uomo di Milesia», dove situazioni apparentemente banali si caricano di simbolismo, dando vita a narrazioni intrise di un senso di angoscia e irrealtà, l’influenza di Kafka è evidente.
Come scrive Fulvio Ferrari nella postfazione al volume: «Kafka è un modello con cui Dagerman si confronta, e da questo confronto nascono racconti originali, che caratterizzano un filone della sua narrativa in cui predomina l’elemento simbolico, onirico, fantastico».
Elementi di una poetica
La capacità di Dagerman di fondere il tragico e il grottesco emerge con particolare forza nei testi brevi, dove l’umorismo nero si mescola a un’angoscia esistenziale profonda. Racconti come «Dov’è il mio maglione islandese?» e «La nostra stazione balneare, di notte» offrono ritratti impietosi delle nostre tensioni interne, ricorrendo a tecniche narrative che richiamano Faulkner, con monologhi interiori e prospettive frammentate dove vengono a galla l’inquietudine e la vulnerabilità dell’essere umano.
Nonostante il senso di smarrimento e la percezione dell’assurdo che attraversano la sua opera, Dagerman non si limita a trasferire sulle proprie pagine la disperazione, ma la trasforma in uno strumento per interrogare l’alternarsi delle contingenze e il loro riverbero. Una profonda empatia viene resa possibile dalla lucidità del suo sguardo capace, tra l’altro, di mettere a nudo l’ipocrisia delle dinamiche sociali. Testi come «Mio figlio fuma una pipa di schiuma» e «Il viaggio del sabato» si distinguono per l’acutezza con cui evidenziano le assurdità di alcune relazioni umane, in uno stile dove si bilanciano tragicità e ironia. E proprio dalla tensione tra luce e ombra, tra speranza e disperazione, si sprigiona la poetica di Dagerman.
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