Il sistema carcerario italiano con il Concordato garantisce una posizione di privilegio ai cappellani cattolici, che egemonizzano l’assistenza spirituale e umana dei detenuti. Valentino Salvatore affronta il tema sul numero 5/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Il carcere è l’istituzione “totale” dove sono più palesi le storture del clericalismo nel nostro Paese. Solo con la legge 354 del 1975 che riforma l’ordinamento penitenziario ancora regolato da disposizioni di epoca fascista finisce il monopolio cattolico: i detenuti possono praticare altri culti. Ma il nuovo Concordato del 1984 riconferma il privilegio cattolico.
I preti li paga lo Stato – come quelli negli ospedali, in polizia o nelle forze armate – e hanno libero accesso. Un gradino sotto ci sono i rappresentanti delle religioni firmatarie di un’intesa con lo Stato: entrano senza necessità di una «particolare autorizzazione» ma non hanno stipendio pubblico. Posizione subalterna per i ministri di culto per confessioni senza intesa: per entrare serve il nulla osta dall’Ufficio culti del ministero dell’interno.
Con il decreto legislativo 123 del 2018 i detenuti possono avere un’alimentazione specifica in base al credo. Negli ultimi anni, con la crescita dei reclusi musulmani, l’amministrazione penitenziaria prevede misure per seguire i precetti del Ramadan. Dal 2015 un protocollo con l’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) consente le sale di preghiera ove possibile.
Un servizio, quello dei preti cappellani in carcere, a carico dei contribuenti con un costo annuo stimato di otto milioni di euro secondo l’inchiesta Uaar I costi della Chiesa. In ognuna delle circa 200 carceri italiane c’è almeno un cappellano cattolico: in totale circa 400, senza contare i volontari di enti legati alla Chiesa.
Sono 1.505 i ministri di culto di altre confessioni, di cui curiosamente un terzo testimoni di Geova (a fronte di poche decine di reclusi) e solo 43 musulmani (a fronte di migliaia di correligionari in carcere). Le realtà cattoliche, ben organizzate e inserite, godono di un vantaggio competitivo. I cappellani sono pure nelle commissioni che si occupano del trattamento dei detenuti assieme a magistrati, direttori, medici, assistenti sociali. La legge assicura poi la presenza di cappelle in ogni struttura, mentre per altri riti la fruibilità di spazi è discrezionale.
Un’impostazione squilibrata in uno Stato di diritto, sulla carta laico, dove è varia l’appartenenza religiosa delle persone recluse. Secondo i dati del 2020 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia su 60.889 detenuti 36.608 sono cattolici, 2.467 ortodossi, 961 non appartengono ad alcuna religione e 11.631 non dichiarano.
All’aprile 2023 quasi un terzo dei detenuti (17.723) non è italiano; per la fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) al luglio 2022 tra gli stranieri il 53,1% è cristiano (e solo 17,1% cattolico), i musulmani sono al 29,4%, atei e agnostici al 9,9% e a seguire altri culti. Nonostante i potenziali fedeli, le confessioni di minoranza hanno spazi solo nel 22,7% degli istituti e i ministri non cattolici sono presenti nel 73,2% delle strutture (quelli musulmani solo nel 23%).
Mentre i credenti non cattolici hanno comunque qualche riconoscimento in nome della libertà di religione, pure in carcere atei e agnostici sono invisibili: è loro negata qualsiasi dignità individuale o collettiva. Giocano un pregiudizio che dà più valore alla coscienza religiosa e una malintesa etichetta di irriducibile individualismo. Concezioni aconfessionali vengono derubricate come meno profonde, sbandate trattabili con l’evangelizzazione.
Domina l’idea cattolica che la cattiveria, il male, la devianza e l’attitudine criminosa siano legati alla scarsa religiosità o a una distorsione che nulla avrebbe a che vedere con l’immagine politicamente corretta della fede. Basterebbe guardare le statistiche sui detenuti per smentirlo, al di là dell’aneddotica spesso strombazzata dai media su padri spirituali e criminali “redenti”.
La cronaca pullula di religiosissimi criminali, anche corredati da disagi psicologici e sociali. Basti pensare agli odierni jihadisti, alienati rispetto alla società occidentale in cui crescono, che cercano rivalsa e senso in un’ideologia estremista e totalizzante con promessa ultraterrena. O ai mafiosi nostrani, spesso devotissimi e che giustificano le proprie azioni in termini religiosi.
Per i non credenti mancano percorsi specifici di supporto o enti riconosciuti che possano far entrare cappellani laico-umanisti, come invece inizia ad avvenire negli Stati Uniti o in nord Europa. La cura spirituale e umana (specie dei “bianchi”) da noi viene egemonizzata dal prete di turno, con le storture del caso in termini di pressioni religiose.
Un’esperienza emblematica è quella di Amanda Knox, studentessa statunitense coinvolta nel caso dell’omicidio di Meredith Kercher a Perugia nel 2007. Prima di essere assolta in Cassazione nel 2015 dopo intricate vicende processuali, sconta tre anni nella casa circondariale di Capanne. «Lì per le donne recluse l’unica riabilitazione disponibile, affidabile e senza medicine, era la messa, lo studio della Bibbia, e un’ora a settimana di socialità con un gruppo di giovani suore e frati», racconta nel 2017, «altrimenti venivamo semplicemente rinchiusi nelle nostre celle».
Nell’ora «di socialità» si legge la Bibbia e si fanno attività come vedere film, sempre con sottofondo religioso: «era un modello che potevamo emulare, un’ideologia cui potevamo aderire. Era la nostra via verso il comportamento corretto e l’accettazione sociale». Knox ha un bel ricordo del cappellano, don Saulo, che accoglie ogni settimana i detenuti nel suo ufficio per attività ricreative. «In quel mondo minuscolo, isolato, dove ero così spesso oggetto di sospetto e disprezzata, trascurata dal punto di vista emozionale e intellettuale, era il mio migliore amico», e anche se il suo supporto era «sempre offerto attraverso il filtro della sua religione, non mi ha mai giudicato come meno morale per essere atea».
Ma una suora, più fredda, le dice che «non ero meglio di un animale, perché non credevo in dio». E non tutti i cappellani e i volontari sono «scrupolosi» come il don: «per molti la prigione è il posto perfetto per convertire futuri credenti» in mezzo a una «platea rinchiusa, isolata ed emotivamente vulnerabile».
Nel 2019 intervistata sul settimanale Oggi ricorda con parole toccanti il cappellano, che crede nella sua innocenza e le sta vicino: «Imprigionata in un ambiente disumano, sola, al colmo della disperazione, avevo meditato il suicidio. Ma in carcere a Perugia, quando ero ancora in isolamento e non potevo parlare con nessuno, ho incontrato un sacerdote straordinario». Questa storia, a suo modo edificante, conferma proprio l’ascendente e l’indebito soft power che nel contesto carcerario clericalizzato hanno i cappellani, al netto dell’opera meritoria di supporto morale che possono svolgere.
Il problema è quando non si trova un cappellano così specchiato. Nel 2024, nell’appartamento – in una struttura dei salesiani – del cappellano di Velletri la polizia trova droga, telefoni, migliaia di euro in contanti. Arrestato a maggio, è rilasciato a luglio dopo aver patteggiato, con pena sospesa perché inferiore ai tre anni.
Nell’ottobre del 2022 viene arrestato un francescano, cappellano del carcere di Enna ed ex carabiniere, mentre consegna hashish a un detenuto. Nella sua cella – in convento – gli trovano armi da fuoco, schede sim e migliaia di euro; in macchina pure oggetti da scasso. Si difende dicendo che si è prestato alla consegna per minacce da ignoti.
Nel giugno 2023 la Cassazione respinge il ricorso: il frate (ridotto allo stato laicale) è «indiziato di avere sfruttato la propria posizione istituzionale» e di aver intessuto «un’articolata rete di contatti criminali (anche in ambito mafioso)». Il cappellano di Alghero finisce ai domiciliari nel 2022 per aver portato un telefonino a un detenuto.
Per gli inquirenti il prete fa da tramite «in cambio di interessenze di varia natura» e pure prestazioni sessuali. Nella zona si indaga sugli affari della ‘ndrangheta calabrese in trasferta (fuori e dentro il carcere). Il prete – già in Lotta Continua, poi convertitosi in benedettino – risulta ai tempi amministratore di una cooperativa che si occupa di «accompagnamento e orientamento all’inserimento lavorativo», fondata da un imprenditore locale poi arrestato.
Del 2012 è il caso del cappellano del carcere milanese di San Vittore, accusato di violenze sessuali su alcuni detenuti “in cambio” di prodotti per l’igiene o sigarette. Il giudice parla di detenuti che «platealmente provocavano l’imputato al fine di suscitare in lui insani impulsi sessuali per ottenere dallo stesso piccoli vantaggi».
Nel 2016 la Cassazione riduce molto gli addebiti: rimane la condanna per episodi minori («due baci e due toccamenti») con rilascio del religioso perché ha già scontato la reclusione. Secondo il gup non c’è «abuso di autorità» perché il cappellano ha una funzione «di tipo esclusivamente religioso» senza «posizione autoritativa».
Formalmente sì, però la questione è sfumata: in un ambiente fatto di restrizioni, sovraffollamento e disagi come il carcere, non entrare nelle grazie di un prete può portare a velate discriminazioni. Non ottenere quei favori che sembrano poca cosa incide sulla vivibilità. Il cappellano di Oristano invece è arrestato nel 2010 con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione e violenza sessuale.
A capo di una comunità per il recupero dei detenuti dove, secondo gli inquirenti, c’è un giro di prostituzione di donne nigeriane di cui saprebbe ma su cui non interviene, che coinvolge altre persone. Nel 2020 arriva la condanna a sette anni per il primo reato e l’assoluzione per il secondo: il prete dice di essere vittima di un complotto contro la comunità, da anni impegnata nel sociale.
I cappellani hanno quindi, nel bene e nel male, una certa influenza in carcere. Innestati all’insegna del multiconfessionalismo multilivello nostrano, riveriti e pagati dallo Stato, liberi di circolare, incontrare reclusi, gestire spazi e risorse, testimoniano proprio come pure dietro le sbarre la laicità vada a farsi benedire.
Valentino Salvatore
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