Bergamo. Il convegno “Quale politica culturale per Bergamo?” tenutosi nella sala del Mutuo Soccorso di Bergamo (via Zambonate, 33) venerdì 17 gennaio ha offerto ai bergamaschi una ricca occasione di confronto sul tema della cultura e della promozione culturale nel nostro territorio.
A partire dalle 9.30 si è svolta una vera maratona di interventi, incentrati su questioni inerenti la protezione e la gestione del patrimonio culturale pubblico. Coordinatrice Donatella Esposti, di Libertà e Giustizia Bergamo, col difficile e ingrato compito di far stare nei tempi di una decina di minuti ogni relatore.
In apertura, l’architetto Sandro Scarrocchia ha documentato una serie di importanti esperienze cittadine degli scorsi decenni, tra cui il convegno organizzato dal Centro La Porta tenutosi nel 1991 “Ripensare i beni culturali”, aperto ai casi europei, e l’inchiesta sul collezionismo pubblico privato del 1991 in cui, tra gli altri, Francesco Rossi poneva il problema della futura Gamec allora nascente, se dovesse essere legata alla realtà locale o costituire un terreno autonomo per l’arte contemporanea. Scarrocchia ha fornito una bibliografia mirata a testi chiave, che illustrano a livello nazionale la graduale svolta verso il mercato come principio guida e unico per la gestione strettamente aziendale dei beni culturali, per cui la pubblicazione del 2013 del Mulino “Distretti culturali” segna “l’ultima volta in cui si parla di capitali sociali come frutto di un insieme di capitale aziendale e di fattore umano e culturale”.
I pro e contro del rapporto pubblico-privato in fatto di cultura sono stati sintetizzati dal giornalista Leonardo Bison che ha inquadrato il caso dell’Accademia Carrara nel panorama italiano 2014/2024. Autore di un articolo uscito a novembre dal titolo scomodo “L’Accademia Carrara di Bergamo è diventata ingestibile?”, Bison ha inserito gli sviluppi gestionali recenti del Museo cittadino in un contesto italiano in cui “da almeno vent’anni si è vissuta un’ubriacatura collettiva del dibattito pubblico per cui pubblico&privato è sempre bello di default”. Il giornalista ha messo a confronto alcuni “casi efficienti” come la Fondazione Musei Civici di Venezia, la Fondazione MAXXI di Roma o il Museo Egizio di Torino, divenuto Fondazione nel 2004, “che funziona benissimo e gode di ottima stampa”, e casi più complessi, critici o paradossali come la Fondazione Mont’e Prama in Sardegna, creata dal Ministero su terreni comunali per cui il Comune è stato costretto ad aderire alla Fondazione, la Fondazione Milano Cortina 2026 che anche per problemi di status ha suscitato un’inchiesta giudiziaria, la Fondazione Teatro di Roma che necessita di doppio direttore per riequilibrare i pesi tra Comune e Ministero, o ancora la Fondazione Museo della Lingua Italiana che esiste già mentre il relativo Museo non c’è ancora. Un panorama nazionale assai eterogeneo, che lascia aperti una serie di interrogativi generali: a che prezzo può essere sostenibile un museo pubblico? Quali sono veramente le operazioni che servono al patrimonio culturale per svolgere il suo ruolo? Il suo ruolo è sbigliettare o fornire un servizio pubblico essenziale? E, per Bergamo, interrogativi più specifici, lasciati però aperti: l’Accademia Carrara funziona meglio oggi rispetto a quando non era una Fondazione? I visitatori sono un indicatore significativo per capirlo?
Al discorso di Bison si è allacciato Daniele Perotti, segretario generale del Comune di Bergamo dal 2009 al 2019, che ha contribuito all’architettura giuridica della Fondazione Accademia Carrara, uno studio partito nel 2011 e culminato nel 2015, con la riapertura al pubblico della Pinacoteca e, appunto, la nascita della Fondazione. “Occorreva creare un meccanismo delicato – ha spiegato Perotti – che garantisse allo stesso tempo fluidità di azione e controllo sull’attività. Si trattava di un contratto di servizio con cui il Comune affidava la gestione alla Fondazione, la quale nasce come un organismo di diritto privato. Nel 2022 c’è stata un’improvvida modifica che secondo me tecnicamente è sbagliata”. Perotti ha tenuto a sottolineare lo spirito del primo fondatore delle collezioni, il Conte Carrara, “un filantropo e illuminista”, il cui intento sopravvive “nella funzione pro populo dell’arte come opportunità di emancipazione culturale dei giovani e non come strumento di profitto: l’asservimento alla religione neoliberista è altra cosa rispetto all’intenzione virtuosa che ispirò il lascito del conte”.
Proprio sulle “modifiche allo Statuto della Fondazione Carrara intervenute nel 2022” si è inserito Luciano Ongaro, ex consigliere comunale, di cui riportiamo l’analisi critica: “Nel 2022 è avvenuta la soppressione del Comitato dei garanti come organi della Fondazione. C’è stato il trasferimento di tutti i poteri del Comitato dei garanti al Consiglio di Amministrazione e al Sindaco come presidente del CdA. Nello statuto originario, del 2015, c’era la clausola di supremazia dei membri pubblici, era presente un membro della Commissarìa e il Comitato dei garanti era un organo direttivo fondamentale. La soppressione del Comitato ha eliminato la golden share del pubblico sul gestore privato. Si è così generata una dicotomia inevitabile tra direttore artistico e generale manager. Anche il Cda prevede ora la maggioranza dei membri privati, che siano 3 su 5, 4 su 7, 5 su 9 e ciò non è bilanciato dal fatto che il presidente sia il sindaco. Scompare anche la competenza esclusiva del Comitato sulle modifiche statutarie. La svolta del 2022, insomma, ha di fatto sancito la privatizzazione della Fondazione, il cui potere di controllo è passato interamente nelle mani dei privati”.
Di altre realtà cittadine costituite in Fondazioni ha parlato Giorgio Berta, presidente Fondazione Teatro Donizetti e direttore del Politecnico delle Arti. Berta ha sottolineato come la Fondazione Teatro Donizetti “che è a controllo pubblico ma è essenzialmente privata”, funzioni bene dispiegandosi in varie direzioni: dall’organizzazione della stagione lirica, di prosa e del festival jazz, alle attività formative per i giovani, in relazione ai programmi in cartellone oltre che in funzione dell’acquisizione di competenze più tecniche legate al mondo del teatro. Diverso il caso del Politecnico delle Arti, che unisce il Conservatorio e la scuola d’arte dell’Accademia Carrara: sull’efficacia di questa fusione Berta mantiene qualche perplessità.
Connessa da remoto, l’avvocata Francesca Bazoli, presidente della Fondazione Brescia Musei, si è poi inserita nel dibattito raccontando l’articolata realtà bresciana: “La storia della nostra Fondazione è frutto di un’evoluzione nel tempo. Ad oggi Fondazione Brescia Musei ha in concessione dal Comune la gestione del patrimonio museale della città: Santa Giulia, il Parco Archeologico (che è in parte del demanio), la Pinacoteca Tosio Martinengo, il Museo delle Armi e del Risorgimento, il Castello, il Cinema Eden. La concessione di gestione e valorizzazione del patrimonio museale bresciano risale al 2012: inizialmente nata come Spa partecipata, è stata poi trasformata in Fondazione che dal 2016 ha la gestione integrale del patrimonio. Si tratta di un caso particolare in Italia, confrontabile solo con Torino Musei e Venezia Musei” . Bazoli ha ribadito l’efficienza del modello Brescia, dove la Fondazione – di cui quattro consiglierei su sette sono nominati dal Comune mentre tre sono privati – si è sviluppata nel tempo come centro di servizi in costante crescita, generando una “Alleanza per la cultura” che vede coinvolte direttamente trenta imprese del territorio.
Molto centrato sul caso “Accademia Carrara”, di cui lo storico dell’arte è stato a lungo conservatore, l’intervento critico di Giovanni Valagussa, dal titolo eloquente: “L’allestimento del 2023: come smentire in una volta sola lo spirito del museo, dell’illuminismo e del conte Carrara”. Posto che l’Accademia Carrara era una scuola con annessa pinacoteca e che oggi un museo è un’istituzione che punta soprattutto sull’esposizione, Valagussa è partito dai numeri dell’allestimento odierno, inaugurato nel gennaio 2023, “il più ridotto della storia del museo sia in termini di spazi sia in termini di numero di pezzi: 176 dipinti, 26 sculture e 114 medaglie e simili”. Soprattutto, dalla sua documentata analisi, non risulta esistere un criterio definito, che sia per collezioni, per cronologia, per scuole regionali o per documentazione della vicenda artistica del territorio di Bergamo. L’assenza di un criterio riconoscibile, le cornici inopportunamente sostituite, “le faticose soluzioni allestitive come le reti metalliche carcerarie per il dipinto di Lucina Brembati”, “le formula di appendimento dei dipinti con barre verticali che disturbano lo sguardo”, l’accostamento di dipinti che “non c’entrano nulla” secondo Valagussa sono elementi “spaesanti” che “non rispettano la storia dell’arte”, “non aiutano a capire dove siamo e quale sia il filo conduttore”. Nell’azione della Fondazione, Valagussa rileva infine che il rapporto con la Scuola, che era costitutivo dello spirito storico della Carrara, è stato messo da parte.
A titolo personale, ma anche dell’Associazione ex allievi dell’Accademia Carrara, si è espresso l’architetto Gian Maria Labaa in un accorato appello al mondo delle arti e della cultura per non “mettere i beni culturali sotto il rullo compressore di un turismo predatorio”, in nome del quale “si dà in svendita ogni cosa, sentimento, valore”. Lo sguardo dell’architetto ha abbracciato ad ampio raggio il territorio di Bergamo denunciandone le manomissioni che nascono “dal mancato riconoscimento di una storia secolare” e dal “distacco dalla sapienza della nostra terra”. Occorre, ribadisce Labaa, trovare una convergenza nel perseguimento del bene comune e per far ciò ci vuole volontà di ascolto da parte delle amministrazioni “il cui compito è di condurre oculatamente qualcosa e non ci sovvertire le cose per altro: chi spinge per una diversa Bergamo non l’avrà spianando la città a colpi di rigenerazione”. Così, se nello specifico della Pinacoteca Carrara, per Labaa essa “si salva se torna realmente in mano pubblica”, per l’annessa Scuola dell’Accademia “l’assorbimento nel Politecnico delle Arti la mette a rischio di un’avidità statuale difficilmente in sintonia con la realtà territoriale”, anche in termini di spazi dedicati alla didattica.
Di tono più documentale l’intervento di Giulio Orazio Bravi, già direttore della Biblioteca Mai, incentrato sul servizio di archivi e biblioteche di città e provincia. Per tenere vivo ed efficiente lo straordinario patrimonio del territorio, Bravi auspica un miglior coordinamento in termini di rete e di digitalizzazione dei dati, per “fare convergere un milione e settecentomila opere nell’opac nazionale, senza più i limiti prodotti dall’uso di applicativi differenti”. La politica deve garantire “una gestione della cultura che tenga in equilibrio apparenza e sostanza, soprattutto per il bene delle nuove generazioni, come intendevano il conte Carrara e il cardinal Furietti”, grazie al cui lascito nel Settecento nacque la Biblioteca Mai.
Anche per Paola Morganti, presidente di Italia Nostra Bergamo, “non basta portare la gente in un luogo, in un museo, perché possano esclamare WOW”. Il famoso selfie dell’“io c’ero” produce meccanicità e non cultura. L’ingegnere parla di “cultura dei luoghi” e di “cultura del turismo”, che implica attenzione, cura, relazione, in contrasto con “l’industria del turismo” e il “turismo culturale”, il cui obiettivo è portare tanta gente a consumare “senza che nelle persone cambi davvero qualcosa di ciò che si è”. Un intervento sul patrimonio culturale, perché sia genuino ed esprima ciò che siamo, “deve essere il frutto di una condivisione pubblica: non è il segno dell’archistar che mette in secondo piano il vissuto di quel bene”. Una condivisione che Morganti rivendica come impegno costante di Italia Nostra, che ha “contribuito al dibattito pubblico sulla Carrara, in particolare all’acceso confronto sulle modalità di allestimento museale, oltre che con il restauro di quattro tele delle collezioni della Pinacoteca, anche a fianco di Cristina Rodeschini e Giovanni Valagussa”.
Il succedersi serrato della mattinata non ha scoraggiato il pubblico, che è rimasto in sala fino alla fine. L’intervento del giornalista e scrittore Paolo Aresi ha delineato la grande sfida della cultura: privilegiare chi la cultura non ce l’ha. Più che parlare di grandi eventi o di grandi enti, per Aresi ha senso guardarsi intorno, considerare la realtà sociale in rapido cambiamento e ripartire dai vuoti, dai disagi dei giovani, degli stranieri, per ridefinire la politica culturale alla radice. “L’educazione è solo in parte compito della scuola e oggi c’è un grande deficit culturale: le istituzioni devono impegnarsi sul territorio in questa fase storica, con senso di responsabilità”. Non è mancato un cenno polemico sulla Capitale della Cultura 2023, un’occasione in cui si potevano proporre “la nostra cultura”, “i nostri artisti”, “la nostra specificità”, più che eventi di facile consumo di massa.
Sul caso Gamec si è invece concentrato Francesco Macario, già assessore all’Edilizia e Patrimonio del Comune di Bergamo. La sua riflessione si è inserita in un più ampio quadro sociale, in una città in cui “la forbice di reddito tra il 20% più povero e il 20% più ricco si è allargata in modo rilevante, per cui Bergamo è oggi è al 93esimo posto su 107 città censite per differenze sociali”. In questo contesto, “la cultura è stata individuata come un asset per trasformare la città: il riferimento sono i city-user, cioè chi transita per qualche ora, non più gli abitanti”. Qui sta il problema, secondo Macario: la città non è più pensata in funzione dei cittadini e lo stesso avviene per la cultura. Su questo sfondo, l’architetto ha ripercorso in sintesi l’iter che ha portato negli ultimi anni al cambio di destinazione dell’ex caserma Montelungo, alla demolizione del Teatro Creberg, all’investimento in Chorus Life, all’eliminazione del Palazzetto dello sport in funzione della nuova Gamec: “Occorrerà ora isolare il pavimento della nuova Gamec dal soffitto del torrente Morla, con costi lievitati e ritardi nei lavori, per una struttura che ci si chiede se sarà più intesa come un museo con centro commerciale o come un centro commerciale con annesso museo”.
Nel pomeriggio si è tenuta la seconda parte del Convegno “Quale Politica Culturale per Bergamo?”. La sala era stracolma per la tavola rotonda con l’assessore alla cultura in carica, l’avvocato Sergio Gandi. La mattinata era stata densa di interrogativi, questioni, denunce e anche, va sottolineato, di attese per l’incontro con il plenipotenziario.
L’assessore ha esordito con una prodiga rassegna di quanto avvenuto in ambito di politiche culturali negli scorsi undici anni – durante i quali ha ricoperto il ruolo di vicesindaco. Particolare soddisfazione è stata espressa da Gandi per le iniziative della Capitale della Cultura, uno dei temi che è stato oggetto di critica durante le relazioni della mattinata.
Dopo l’enumerazione di quanto di buono è stato realizzato dal Comune in autonomia e in collaborazione con enti e associazioni, con cifre e dati a riprova del primato orobico, l’assessore è stato invitato a lasciare spazio alla tavola rotonda, condotta dal giornalista Cesare Zapperi, che ha visto intervenire con ulteriori domande e riflessioni Paola Morganti presidente di Italia Nostra, Paolo Aresi dell’Associazione Bergamo Insieme, Diego Bonifaccio di Libertà e Giustizia Bergamo, Sem Galimberti del Mutuo Soccorso Bergamo, Giovanni Ginoulhiac.
Il moderatore ha proposto alcune questioni: la sorte dell’attuale sede della Gamec, avuta in dono dall’Amministrazione a suo tempo e che potrebbe restare vuota in futuro; i progetti relativi alla Biblioteca Mai, per la quale si parla di “valorizzazione”; i disagi e lo stile discutibile dell’attuale utilizzo del piazzale Alpini. Anche gli altri partecipanti hanno rinnovato all’assessore domande su temi attuali e vivi.
Morganti ha fatto presente la difficoltà di dialogo con l’amministrazione in termini di tutela del territorio, l’assenza di risposte a proposte e segnalazioni, la preoccupazione per le sorti del territorio, le condizioni deturpate di alcuni monumenti. Con un occhio dedicato alla cultura “dal basso” Paolo Aresi ha rilanciato la sua proposta di maggiore attenzione alla cultura diffusa, al fervore di iniziative associative e di base. Dati alla mano, ha denunciato la crisi di questa cultura popolare, lasciata in disparte nella kermesse più commerciale della Capitale della Cultura. Diego Bonifaccio, rappresentante del soggetto organizzatore del convegno, si è poi limitato a richiamare quanto già denunciato sull’involuzione della Pinacoteca e della Scuola d’arte che portano il nome dell’Accademia Carrara, oltre a problemi gestionali più volte citati nel corso del convegno. Facendo eco ad analoghe sollecitazioni emerse durante la mattinata, Giovanni Ginoulhiac, del gruppo Base, ha passato in rassegna con precisione le questioni relative alla gestione opaca della Fondazione della Carrara, e le molte domande da tempo formulate all’Amministrazione Comunale, inserite in appelli pubblici e rimaste tuttora senza risposta. Sem Galimberti, artista e insegnante impegnato in tante battaglie civili, ha rammentato i tempi lontani in cui era stata istituita la Gamec, con la partecipazione aperta di associazioni e la direzione illuminata di Vittorio Fagone. Ha rimarcato, di contro, l’attuale chiusura di Gamec alla scena artistica bergamasca e ha chiesto lumi sui criteri con cui il Comune assegna i propri contributi annuali. Infine Donatella Esposti, conduttrice del Convegno, ha puntualizzato su alcune questioni riguardanti l’opinabile gusto nella dedica di spazi e giardini presso la Pinacoteca, e le vistose sponsorizzazioni messe in luce dal management attuale.
Le risposte dell’assessore Gandi, a volte immediate e volte riassuntive, non hanno lasciato che generici spiragli a possibili prossime aperture e confronti più partecipati.
In merito alla gestione della Pinacoteca non sono state espresse considerazioni perché secondo l’assessore, con l’assegnazione della nuova direzione, non avrebbe senso parlarne, mentre le domande specifiche rivolte all’amministrazione in quanto titolare del patrimonio della Carrara sono state declinate e rispedite al manager della Fondazione.
La cultura di base, d’altro canto, è sempre stata oggetto di consultazione da parte dell’amministrazione – ha ribadito Gandi – e non ha bisogno di ulteriore attenzione, così come la scena artistica locale non è ignorata. L’invito è a non guardare a passate questioni ma al futuro.
Quanto alla Gamec, la Galleria d’arte contemporanea ha davvero bisogno di una sede più ampia e sono quindi giustificate le spese, come pure le demolizioni del Palazzetto e del Palatenda.
Infine, per Piazzale Alpini l’amministrazione conferma la bontà delle scelte, in quanto in questa forma recintata la piazza “viene restituita alla città”.
Gli organizzatori della tavola rotonda, non soddisfatti dalle risposte dell’assessore, hanno annunciato di voler dare vita a un Osservatorio permanente sulle politiche culturali.
A stemperare l’agrodolce del confronto pomeridiano, è intervenuto in collegamento streaming Tomaso Montanari, noto intellettuale, storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, che ha tracciato un profilo storico delle peripezie della classificazione giuridica e costituzionale del concetto di Cultura e di Beni Culturali. Montanari ha illustrato le “deleterie politiche” riservate sia da destra che dal centrosinistra alla Cultura, a partire dall’infelice svolta dei “giacimenti culturali”, ovvero la messa a frutto e privatizzazione di monumenti e opere d’arte. Un quadro disarmante a cui si è aggiunta però una riflessione dedicata a come contrastare tali politiche e a come riaffermare concretamente i valori culturali. Montanari ha incluso nel suo eloquio empatico anche riferimenti concreti al caso bergamasco delle Fondazioni Culturali, nelle quali la presenza pubblica in realtà fa numero per i privati, e ha risposto alle domande del pubblico in sala.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link