La chiamava “la semina” perchè diceva che se prima non si piantano i semi, poi non si può sperare di veder crescere una pianta. Per Rocco Chinnici la semina era andare nelle scuole a parlare di lotta alla mafia. Lo faceva già alla fine degli anni ’70, quando a Palermo la parola mafia non si poteva spesso neanche pronunciare a voce alta. “Fu il primo ad avere quest’idea visionaria, prima di allora nessuno ci aveva mai pensato”, racconta Alessandro Averna Chinnici, nipote del magistrato assassinato da Cosa nostra il 29 luglio del 1983.
Inventore del Pool Antimafia di Palermo, anche se non farà in tempo a vederlo, scopritore del talento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il giorno in cui lo ammazzarono Chinnici aveva solo 58 anni, ma nelle foto sembra molto più anziano, come capitava a molti italiani dell’epoca. Sempre in giacca e cravatta, anche nelle incandescenti giornate estive siciliane, il capo dell’Ufficio istruttore di Palermo era nato a Misilmeri, nell’hinterland palermitano il 19 gennaio del 1925, esattamente cent’anni fa. “Io sono nato nel 1991, otto anni dopo la sua morte. Non avendolo conosciuto direttamente, ma solo attraverso i racconti dei miei familiari, ho sempre avuto questa curiosità: com’era mio nonno?”, spiega il nipote, che oggi fa il capitano dei carabinieri a Faenza. “L’ispirazione entrare nell’Arma l’ho avuta dai militari della scorta di mia nonno che sono morti con lui: Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta“, racconta ancora Averna Chinnici, che in questi giorni è arrivato in libreria con L’Italia di Rocco Chinnici: Storie su un giudice rivoluzionario e gentile.
Il libro: un racconto polifonico – Scritto insieme a Riccardo Tessarini, pubblicato da Edizioni Minerva nel centenario della nascita dell’inventore del Pool Antimafia, il saggio raccoglie i contributi di magistrati, giornalisti, esponenti della società civile, familiari di vittime della mafia ma anche di gente comune. “Volevo fare un libro che mettesse insieme i racconti di chi ha conosciuto mio nonno. Non solo addetti ai lavori, ma anche a gente comune: volevo che potessero mettere a disposizione del lettore il loro punto di vista”. Il risultato è un racconto polifonico che restituisce il ritratto di un precursore, un uomo che vedeva lontano. A cominciare da quell’idea che oggi sembra banale, ma all’epoca era rivoluzionaria: andare nelle scuole a parlare di lotta alla mafia, in un’epoca in cui Cosa nostra muoveva ogni cosa. “Mi hanno raccontato che in tanti lo accusavano di perdere tempo, anche molti suoi colleghi. Gli dicevano: ma che ci vai a fare?”, racconta ancora Averna Chinnici. Suo nonno, in pratica, aveva capito che la guerra a Cosa nostra non poteva essere combattuta solo per via giudiziaria. Aveva compreso che la lotta alla mafia doveva diventare soprattutto una battaglia culturale ed educativa: un’intuizione clamorosa. “Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”, è una delle frasi più note di Chinnici. “Anche per questo motivo – dice oggi suo nipote – io credo che il suo sia stato un sacrificio compiuto per migliorare la vita delle generazioni successive”.
Le vittime collaterali dei narcos – Se Chinnici cominciò ad andare nelle scuole, però, non fu solo perché voleva fare la “semina” e costruire una nuova coscienza collettiva. Lo fece anche perché aveva capito un’altra cosa. L’escalation dello strapotere mafioso, infatti, aveva una plastica rappresentazione nella vita di ogni giorno: l’exploit dei morti per droga, vittime collaterali di mafia. Oggi sembra impossibile da credere ma il narcotraffico su scala planetaria non è un’invenzione dei colombiani di Pablo Escobar o del cartello dei messicani di Guadajara. Nossignore: i primi narcos della storia sono gli uomini di Cosa nostra. Sono gli anni ’70 e lo spaccio di droga a livello globale inventato dalla mafia provoca un Olocausto. Nessuno se lo ricorda più, ma era questa l’emergenza degli anni ’70 e ’80: i tossicodipendenti. Chinnici andava nelle scuole e cercava di spiegare ai ragazzi cosa ci fosse in gioco. “Sono in tanti che parlano dell’attività di mio nonno nelle scuole: il suo collega Giuseppe Ayala, ma anche alcune persone che all’epoca erano ancora studenti”, spiega suo nipote. “Il giudice ci trattò come suoi figli, lasciandoci in eredità la sua visione del mondo. In molti riuscimmo a farne tesoro”, scrive nel libro Margherita Rodolico, ex studentessa del liceo classico Meli.
Follow the money – “Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. Nella sola Palermo c’è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi“, spiegava il giudice Chinnici in una vecchia intervista a I Siciliani di Pippo Fava. È seguendo le tracce di questa ricchezza criminale che le indagini di Chinnici e dell’Ufficio Istruzione di Palermo fanno il salto di qualità. La droga produce denaro, tantissimo denaro. E i soldi non possono sparire. Seguendo i rivoli di questa ricchezza sporca, si cominciano a unire i puntini: nascono le indagini sul lato finanziario di Cosa nostra, che portano dritte ai cosiddetti colletti bianchi. Chinnici assegna a Falcone l’inchiesta su Rosario Spatola, un ex venditore ambulante di latte diventato il principale costruttore della Sicilia, titolare di società che davano lavoro a 400 operai solo a Palermo. Era cugino dei superboss Salvatore Inzerillo e di John Gambino, a sua volta nipote di Carlo Gambino, capo di una delle cinque famiglie mafiose di New York. Col processo Spatola, Falcone mette a punto quello che è passato alla storia come “metodo Falcone”: follow the money, segui il denaro, cioè ricostruire gli affari criminali mettendo in fila assegni e documenti bancari. L’effetto è devastante, le attenzioni si concentrano sui cugini Nino e Ignazio Salvo, potentissimi esattori siciliani, sponsor di decine di deputati e senatori. Un giorno, è il maggio del 1982, Chinnici viene letteralmente “investito” da Giovanni Pizzillo, presidente della Corte d’Appello: furibondo, lo accusa di rovinare l’economia siciliana con le sue indagini. Poi gli ordina di caricare Falcone di piccoli processi: “Così cercherà di scoprire nulla, perchè i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla”, dice maligno.
Il killer sotto casa – Chinnici non si piega. Ma comincia a sentirsi sempre più isolato, come spiega nel suo diario. Un giorno, è il dicembre del 1982, un conoscente lo avverte che nel suo palazzo ha incontrato Nino Madonia, rampollo della potente famiglia mafiosa di Resuttana. Chinnici lo ha rinviato a giudizio insieme a suo padre Francesco per aver piazzato cinque bombe davanti alla sede del Comune e degli Assessorati regionali la notte di capodanno del 1971. Quegli ordigni non uccidono nessuno, ma servono a creare paura, terrore: quando mai Cosa nostra ha piazzato bombe solo per provocare terrore? Sono mafiosi questi Madonia o sono terroristi? Nessuno ancora lo sa, ma il clan di Resutta ha già all’epoca legami con esponenti dei servizi segreti. E in quel dicembre del 1982 Nino Madonia è già diventato il killer che Cosa nostra utilizza per i delitti eccellenti: ha ucciso il medico Sebastiano Bosio, il segretario del Pci Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Perché quel giorno si aggira nel palazzo di via Pipitone Federico, nel pieno del centro residenziale della città, dove vivono i Chinnici? Il giorno dopo al giudice arriva una raccomandata espressa. C’è scritto: “Non si muove foglia che Giovanni Falcone non voglia”. Il no di “non voglia” è sottolineato due volte. “È minaccia? Mi si vuole mettere contro anche Giovanni Falcone?”, appunta Chinnici nel suo diario, che sarà poi consegnato dalla famiglia agli investigatori. Tra quelle pagine ci sono anche gli spunti raccolti dal magistrato nelle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella, l’allora presidente della Regione, fratello dell’attuale capo dello Stato. “Ritornando da Roma dopo un colloquio con il ministro Rognoni disse alla segretaria: se si sapesse quello che ho detto a Rognoni, mi ucciderebbero certamente”.
Il caso Impastato – Ma il giudice si occupa anche di un altro caso: quello dell’omicidio di Peppino Impastato. Ucciso il 9 maggio del 1978, lo stesso giorno in cui le Brigate rosse fanno ritrovare il cadavere di Aldo Moro, il caso era stato archiviato subito come un incidente: un terrorista rosso che salta in aria mentre cerca di piazzare un ordigno sulla ferrovia tra Cinisi e Terrasini. Ma i suoi compagni sanno che non è così: protestano, chiedono nuove indagini. E per fortuna s’imbattono in Chinnici: la sua inchiesta per la prima volta ricostruisce l’impegno dell’attivista di Democrazia proletaria contro la mafia di don Tano Badalamenti. Quell’istruttoria sarà completata nel 1984 da Antonino Caponnetto, tornato in Sicilia dopo tanti anni per prendere il posto al vertice dell’Ufficio Istruzione.
Palermo come Beirut – Nel frattempo, infatti, Cosa nostra ha chiuso i conti: sono le 8 e 5 del 29 luglio 1983 quando Chinnici esce da casa per andare a lavoro come ogni mattina. In quello stesso istante una Fiat 126 verde oliva parcheggiata davanti al portone di via Pipitone Federico salta in aria. Rubata pochi giorni prima, era stata caricata con 75 chili di esplosivo: l’effetto è devastante. Le finestre e le persiane nel raggio di dieci metri vengono distrutte, sull’asfalto si crea una sorta di cratere. Sembra di essere tornati agli anni ’60, quando nelle campagne saltavano in aria le “Giuliette al tritolo“. Questa volta, però, è diverso. Questa volta viene colpito il salotto della città: mai Cosa nostra aveva osato far esplodere un’autobomba in pieno centro. Quella tecnica fino ad allora era stata utilizzata solo in Paesi dilaniati dalla guerra civile, come il Libano. Ecco perché i giornali titolano: “Palermo come Beirut“. “Evidentemente Cosa nostra aveva così tanta fretta di eliminare mio nonno da correre il rischio di fare una strage che poteva avere effetti anche peggiori”, riflette oggi il nipote del giudice.
Intrigo internazionale – Nella strage di via Pipitone Federico muoiono Trapassi e Bartolotta, i carabinieri di scorta, e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Resta ferito gravemente Giovanni Paparcuri, l’autista giudiziario che in futuro sarà il perito informatico del Pool Antimafia. “Il danno peggiore che ho subito è il senso di colpa nei confronti dei familiari dei deceduti. Per vent’anni, quando mi recavo alle commemorazioni mi nascondevo per non essere visto perché mi vergognavo di essere sopravvissuto“, confida nel libro di Averna Chinnici. Ogni volta che Paparcuri parla della morte di Chinnici, ricorda sempre la figura di Bou Chebel Ghassan, un libanese confidente dei servizi segreti italiani: il 26 luglio del 1983 aveva raccontato che Cosa nostra stava preparando un “attentato alla libanese” a Palermo. Ghassan dice di non sapere chi sia il bersaglio , ma comunque nessuno fa nulla. Il 27 luglio, nel pomeriggio, Chinnici convoca nel suo ufficio Paparcuri, Trapassi e Bartolotta e li mette in guardia: dovevano stare attenti a furgoni e auto di grossa cilindrata. “Ricordo che non indossava la giacca. La cosa mi stupì non poco perchè non l’avevo mai visto senza”, ricorda l’unico sopravvissuto. “Evidentemente Cosa nostra ammazza Chinnici perché teme le sue indagini. Però è incredibile che si sia arrivati a organizzare un attentato di questo livello e di questo tenore senza che nessuno ne avesse il sentore: secondo me lì è saltato un passaggio”, dice Averna Chinnici. Qualcosa non torna neanche nelle indagini: un tormentato iter giudiziario si risolve con un nulla di fatto dopo tre annullamenti da parte della Cassazione. Solo nel 2002 verrà condannato tutto il gotha di Cosa nostra con l’accusa di aver ordinato la strage di via Pipitone Federico. Tra i mandanti, invece, ci sarà anche Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci. E pure Madonia, il killer legato ai servizi, recentemente finito sotto inchiesta per l’omicidio Mattarella. Oggi, il capitano Averna Chinnici confida: “Se si potesse tornare indietro nel tempo, mi piacerebbe poter indagare sull’omicidio di mio nonno”.
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