«Il nostro sciopero serve ad aprire la discussione su una riforma sbagliata»

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Parla Stefano Celli, la toga di Magistratura democratica che ha proposto l’emendamento dello sciopero, previsto per il 27 febbraio, contro la separazione delle carriere. Quella dell’Anm «è una risposta ferma, non cercata, ma quasi imposta dall’atteggiamento tenuto finora dall’esecutivo», che ha presentato un testo blindato

In risposta al primo via libera per la riforma costituzionale della separazione delle carriere tra giudici e pm, l’Associazione nazionale magistrati ha proclamato uno sciopero per il 27 febbraio prossimo. La decisione è stata presa a maggioranza in una concitata assemblea durata quasi otto ore e la determinazione a incrociare le braccia è stata presa con la presentazione di un emendamento del magistrato di Magistratura democratica, Stefano Celli.

L’Anm ha proclamato lo sciopero. Una risposta durissima al primo via libera per la separazione delle carriere, con quale obiettivo?

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Comincio col dire che la separazione delle carriere, che peraltro è praticamente operativa anche se i passaggi da una funzione all’altra interessano lo “zerovirgola” dei magistrati da anni, è solo una delle cattive riforme introdotte dal disegno legislativo. E forse neppure la peggiore, perché si prevede: la duplicazione dei Csm, il sorteggio dei membri, che priva i magistrati, unici cittadini, del diritto di elettorato, attivo e passivo, per l’organo di autogoverno. Poi l’Alta corte disciplinare, dove si altera a favore dei laici l’attuale rapporto laici/togati e dove e dove, al contrario che per il futuro Csm, non fa problema la circostanza che i pubblici ministeri contribuiscano a giudicare i giudici, e viceversa.

Da mesi, anzi da anni, usiamo argomentazioni della logica e del diritto, del buon senso, per cercare di spiegare le conseguenze inaccettabili, soprattutto per i cittadini e per i loro diritti, di un pubblico ministero separato che scivolerà lentamente nella sfera dell’esecutivo. Da anni l’Europa raccomanda agli stati di incoraggiare il passaggio da una funzione all’altra e ogni operatore del diritto sa quanto equilibrio innesti nell’azione del pubblico ministero la precedente esperienza di giudice.

La risposta è stata un percorso parlamentare accelerato, un testo blindato, un dibattito parlamentare strozzato: lo sciopero vuole essere il tentativo di imprimere una spinta alla discussione, di “portare al tavolo della discussione” il governo, la maggioranza, ma anche l’opposizione.

Che messaggio dovrebbe trarne il governo? Vi hanno accusati di essere eversivi.

Uno sciopero di un giorno, che garantisce comunque i servizi essenziali, è una risposta ferma, non cercata, ma quasi imposta dall’atteggiamento tenuto finora dall’esecutivo. Confidiamo che si colga il significato della protesta, che non fa diminuire di una virgola la nostra capacità di dialogo. Mi tengo alla larga dalle espressioni forti, dalle invettive e dal dileggio: l’eversione è una parola che riservo allo sconvolgimento della repubblica dalle sue fondamenta, non all’esercizio di un diritto. Piuttosto mi chiedo come definire un disegno di legge di iniziativa del ministro, che è uno dei due pubblici ministeri in materia disciplinare, mediante il quale lo stesso pm disciplinare ridisegna e costituisce il suo giudice.

La proposta di fissare la data dello sciopero è venuta da un emendamento di Magistratura democratica. Non bastava la manifestazione durante l’apertura dell’anno giudiziario?

Il comitato direttivo centrale doveva dare attuazione al deliberato della partecipatissima e riuscitissima assemblea del 15 dicembre, che comprendeva la proclamazione dello sciopero e lo collegava al progredire dell’iter parlamentare. Domenica prossima ci saranno le elezioni, poi il nuovo comitato direttivo centrale dovrà eleggere il presidente e la Giunta. Abbiamo pensato di individuare una data per evitare che, impegnati in questi passaggi, lo sciopero rimanesse sullo sfondo e si perdesse tempo prezioso, ancor più alla luce del fatto che il governo intende procedere per tappe forzate e una risposta tardiva equivale a nessuna risposta. Anzi, è peggio.

Nella memoria c’è lo sciopero del 2022 sulla riforma Cartabia, che non ha avuto la partecipazione sperata. Questa volta sarà diverso?

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Sono sicuro di sì. Ci sono molti segni positivi e incoraggianti, a cominciare da una partecipazione forte dei giovani magistrati in tirocinio che, nelle prime due settimane dal giuramento, si sono iscritti in massa, e in massa sono venuti a Roma. Abbiamo lavorato e stiamo lavorando per spiegare ai pochi incerti l’indispensabilità di questo passaggio che peraltro, anche se è sicuramente la più visibile, non è l’unica forma che assume la nostra battaglia.

La componente più conservatrice si è astenuta. Un segnale?

L’astensione è stata solo di alcuni, sul documento finale. L’emendamento che indicava la data dello sciopero è stato votato da tutta Magistratura indipendente, che non ha sollevato alcuna obiezione. Alcuni autorevoli rappresentanti del gruppo, all’assemblea di dicembre, hanno addirittura prospettato il ricorso a più giornate di sciopero. Penso che anche loro condividano il giudizio sul carattere esiziale della riforma e terranno un comportamento coerente con le dichiarazioni pubbliche.

Guardando avanti, se come sembra la riforma verrà approvata, siete pronti a una campagna per il no al referendum?

Sì. Ci sono forze e idee antiche e nuove, e noi abbiamo bisogno di entrambe. Certo la partita più difficile sta nel coinvolgimento della società civile e degli altri corpi intermedi, con i quali è fondamentale rapportarsi e dialogare. Le nostre buone ragioni devono diffondersi seguendo un movimento di cerchi concentrici, raggiungendo, e convincendo, prima i più vicini, che magari già la pensano come noi, poi gli incerti e i dubbiosi, poi i lontani e infine i contrari. Stiamo pensando anche a nuove forme di comunicazione, anche per rendere comprensibili le nostre ragioni anche ai non tecnici.

Come risponde all’obiezione che così le toghe farebbero politica?

Se la intendiamo come perseguimento di interessi di parte, è un’obiezione che non sta in piedi, prova ne sia che tutta la magistratura, che non si riconosce in un’unica idea politica, contrasta la riforma. Se invece si tratta di contribuire al processo democratico i magistrati sono cittadini a pieno titolo, che hanno piuttosto un obbligo civile di mettere a disposizione le proprie competenze. È quello che faremo, con ostinata ragionevolezza.

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