«Non confondere la mia laurea in medicina con le tue ricerche su Internet». È la frase che campeggia su maglie e felpe che vanno a ruba sul web. Scherzosa, ma non troppo. Alcuni dottori l’hanno persino appesa alle pareti dei loro studi, stanchi di pazienti freschi di autodiagnosi dopo aver «riconosciuto» grazie a Google i sintomi di un’ipotetica patologia. Persone convinte di soffrire di una malattia, che chiedono insistentemente al proprio medico test ed esami di qualsiasi tipo, contestano il farmaco prescritto perché hanno letto in Rete «che fa male» o stravolgono a piacimento la terapia assegnata perché «non va bene per me». Trascurando il fatto che le diagnosi le fanno i medici, che alcuni accertamenti, a una persona sana, possono fare più male che bene e finiscono per incidere sul Sistema sanitario nazionale.
Mentre il New York Times ha appena messo in guardia, soprattutto gli anziani, sul tempo e i soldi spesi nel 2024 facendo screening inutili, negli Stati Uniti si discute animatamente di «over testing», ovvero di «uso eccessivo di test diagnostici nelle cure primarie». Il presupposto è: «meglio prevenire che curare», ma un conto sono gli esami di routine, un altro è andare alla cieca credendo di trovare chissà cosa.
«Fare accertamenti senza che ci sia un quesito clinico è inutile, anzi, dannoso» avverte Evis Sala, ordinaria di Radiologia dell’Università Cattolica del Sacro cuore di Roma e direttore del Dipartimento di diagnostica per immagini e radioterapia della Fondazione policlinico universitario Agostino Gemelli IRCCS. «Se non è strettamente necessario, e questo lo valuta un professionista, non bisogna sottoporsi a verifiche come Rx e Tac. Le radiazioni non sono come il mezzo di contrasto che si può iniettare in circolo in caso di risonanza magnetica e si elimina con le urine. Le radiazioni non si smaltiscono, rimangono nei tessuti e negli organi. Si accumulano, e ciò non è indicato soprattutto per i pazienti più giovani». Quelle ionizzanti sono impiegate per alcuni esami diagnostici: i raggi X per le radiografie, i raggi gamma per la Pet, la tomografia. Anche gli ultravioletti, i più vicini per lunghezza d’onda ai raggi X, sono considerati «ionizzanti». Provengono dal Sole e rappresentano un fattore di rischio per i tumori alla pelle.
«L’esposizione alle radiazioni è “cumulativa”, indipendentemente dall’intervallo tra i test diagnostici. Ogni individuo, nel corso della vita, è già esposto in modo costante a bassi livelli di radiazioni naturali, con una quantità che varia a seconda della posizione geografica in cui si trova» continua Sala. Anche se le apparecchiature attuali hanno ridotto la quantità di raggi utilizzata nella diagnostica per immagini, secondo i dati dell’American College of Radiology una lastra eseguita ai polmoni equivale a 10 giorni di esposizione alle radiazioni ambientali. Una Tac cranica a 243 giorni, quella dell’addome arriva a due anni. E ci sono evidenze scientifiche su come anche bassi livelli di esposizione possano dare inizio a trasformazioni cellulari che aumentano il rischio di cancro.
Molto dipende dalla dose di raggi a cui si viene esposti, la durata, il tipo di radiazione, la zona del corpo interessata. «Quando il medico lo ritiene opportuno» spiega la specialista «si può fare prevenzione prediligendo ecografie o risonanze magnetiche. Le donne dovrebbero fare l’ecografia al seno e dopo anche la mammografia, gli uomini devono controllare la prostata. Questi sono esami salvavita. In assenza di fattori conclamati di rischio, le ecografie vedono l’insorgenza dei tumori anche piccoli a pancreas, rene, fegato. Se ci sono incertezze, o familiarità per certi tipi di cancro, si approfondisce con Tac e Pet. In questi casi un po’ di apprensione in più è giustificata». Per sottoporsi a una qualsivoglia indagine medica è necessaria, in ogni caso, l’esistenza di un quesito clinico. «Se un medico ritiene opportuno eseguire test aggiuntivi» conclude Sala, «è per arrivare a una diagnosi più completa. Non per capriccio del paziente».
L’autoprescrizione di accertamenti inutili, in base a patologie immaginarie scovate sul web, è ancora più deleteria nel caso dei bambini. «I Pronto soccorso sono ingolfati di minori sottoposti a esami non necessari per presunti malanni di cui i genitori hanno letto su internet» afferma Rodolfo Fruhwirth, già dirigente medico di I livello all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, specializzato in ecografia. «In quasi 40 anni ho visto centinaia di genitori andare in ansia per una banale febbre e portare il piccolo in ospedale a fare analisi e soprattutto ecografie senza indicazione. Il medico, quando indaga, deve sapere cosa cercare. Se rileva un possibile problema epatico, io, specialista, analizzo a fondo il fegato. Se invece il pediatra, davanti a genitori che non lo ascoltano, per placare le loro angosce prescrive un’ecografia addominale, si rischia di andare a scandagliare inutilmente tutta una serie di organi».
Almeno l’ecografia è innocua, a differenza delle radiazioni. «Se un bambino di tre anni ripete esami con raggi X o gamma, a 18 anni avrà già un suo danno biologico con cui dovrà convivere. Fidiamoci del nostro medico. È come un direttore d’orchestra: ha davanti tutti gli strumenti, dopo aver visitato il paziente “chiama” quelli che gli servono per completare la sua sinfonia. Ovvero, la diagnosi». In un’epoca in cui il medico curante visita ormai di rado il paziente, è venuto anche a mancare il rapporto di fiducia che legava le famiglie al proprio dottore. Non solo: l’accesso facile a notizie di carattere scientifico, o presunte tali, ha reso tutti più ansiosi. «Prima del web c’erano le vecchie enciclopedie mediche a fomentare le ansie della gente» riflette Giovanni Cuomo, specialista in Neurologia, neurochirurgia e psichiatria forense. «Le persone si costruivano le loro malattie scoprendone i sintomi sull’enciclopedia. Internet, come quei vecchi volumi, rappresenta un rifugio per le proprie paure».
Il fatto che la Rete sia facilmente fruibile, e oltretutto piena di fake news e disinformazione (almeno le raccolte a dispense ne erano immuni), ha ingigantito il fenomeno. «Così succede che al primo dolore al polpaccio si vada a cercare online» continua Cuomo. «Non importa se il giorno prima si è fatto jogging: il dubbio che attanaglia è quello di una malattia degenerativa come la distrofia muscolare. E parte tutta una serie di analisi autoprescritte e a pagamento».
Questo tipo di ansia può non placarsi neppure dopo la visita in ambulatorio. Nella mente del paziente si moltiplicano i dubbi: sarà la diagnosi precisa? Mi avranno prescritto il farmaco giusto? Spesso alla base di tutto c’è una componente ipocondriaca rafforzata dal web. Un soggetto equilibrato non si fa travolgere dai sintomi né da ciò che ha letto (fra le infinite notizie, forum, blog, pubblicazioni pseudo-scientifiche – o anche autorevoli ma mal comprese – pescate online).
Basterebbe parlarne a cuore aperto con il proprio medico. Perché, alla fine, ad avere la laurea in medicina è lui. n
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