Accordo di tregua per Gaza, una speranza tante incertezze

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Le scene di giubilo a Gaza e in Israele alla notizia dell’accordo raggiunto tra Israele e Hamas – con la mediazione di Qatar, Egitto e Stati Uniti – bene esprime quanto una tregua fosse profondamente desiderata dalla popolazione di entrambe le parti. E ancor più è dimostrato questo desiderio se si mettono a confronto i festeggiamenti e le parole di speranza per un futuro diverso con la estrema fragilità e precarietà dell’accordo.


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Questo, ricordiamolo, prevede un cessate il fuoco di 42 giorni (sei settimane) in cui verranno liberati 33 ostaggi israeliani in cambio di circa 1000 prigionieri palestinesi (i primi già domenica 19 gennaio), e un ritiro parziale delle truppe israeliane da alcune zone della Striscia di Gaza, con la possibilità per i palestinesi sfollati di fare ritorno nelle aree di provenienza. In questo tempo si dovranno continuare i colloqui per avviare una seconda fase – che prevede la liberazione degli altri ostaggi israeliani ancora vivi, altri 30 circa, e la liberazione di altri prigionieri palestinesi, oltre al ritiro di tutte le truppe israeliane da Gaza – e la terza fase, in cui è prevista anche la restituzione dei corpi degli ostaggi uccisi e un piano di ricostruzione per Gaza.


Il cessate il fuoco è certamente una buona notizia, ma ci vorrà una grande determinazione, fortissime pressioni internazionali e l’assenza totale di provocazioni e passi falsi per far sì che diventi la base di qualcosa di più duraturo e stabile. Tanti, forse troppi, sono i fattori che possono far saltare tutto, anche prima dei 42 giorni della prima fase.


Intanto si deve fare i conti con la spaccatura all’interno del governo israeliano, dove i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich hanno votato contro l’accordo pur non dando seguito per il momento alla minaccia di dimettersi dal governo provocando una crisi. È vero che in previsione di questa eventualità, il leader dell’opposizione Yair Lapid aveva già promesso di sostenere il governo per poter approvare questo accordo, ma il problema politico per il primo ministro Benjamin Netanyahu resta. Tanto è vero che il voto del governo è slittato di un giorno e mezzo e Netanyahu ha detto di aver strappato agli Stati Uniti il via libera a nuovi bombardamenti se la fase 2 fallisse.


A prescindere dalla preoccupazione per la tenuta della coalizione di governo, lo stesso Netanyahu dà nettamente l’impressione di aver subìto questo accordo più che averlo voluto. Tanto è vero che secondo alcune fonti, Netanyahu è stato ammorbidito con la possibilità della “occupazione” di una striscia di sicurezza profonda settecento metri nel territorio di Gaza e altre concessioni in Cisgiordania.


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Del resto, malgrado Netanyahu si sia affrettato a sottolineare che l’accordo è possibile perché sono stati raggiunti gli obiettivi dell’operazione militare iniziata da Israele all’indomani della strage del 7 ottobre 2023, la realtà dimostra il contrario. Se lo scopo dei bombardamenti a tappeto su Gaza era quello di eliminare la presenza di Hamas, la situazione sul campo dimostra che le stragi di questi mesi hanno devastato la Striscia di Gaza, ucciso circa 47mila persone e reso sfollati il 90% dei 2 milioni di abitanti, ma Hamas è ancora lì. Indebolita certamente ma tutt’altro che «sradicata». È un fallimento politico certificato dal Segretario di Stato americano Anthony Blinken il quale il 14 gennaio, parlando al Consiglio atlantico a Washington ha detto che Hamas, pur avendo perso molti dei capi, è stata in grado di reclutare e rimpiazzare i miliziani uccisi dall’esercito israeliano.


Non solo, la liberazione dei detenuti palestinesi prevista dall’accordo rafforzerà ulteriormente le fila di Hamas, visto che molti di questi sono in prigione per reati di terrorismo. E su questo ha fatto comprensibilmente leva il ministro Ben-Gvir per invitare al rifiuto dell’accordo.


Il fatto che Hamas sia vivo e vegeto pone un immediato problema per un accordo sul futuro di Gaza. Israele e Stati Uniti escludono apriori la possibilità che Hamas – organizzazione etichettata come terroristica – abbia un qualche ruolo nel governo del dopo-guerra; e l’indirizzo oggi prevalente è quello di riunire Gaza e Cisgiordania sotto l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), magari con un sostegno internazionale. Compito a cui l’ANP si è già dichiarata pronta ma è ben difficile immaginare che Hamas, che a Gaza gode di un vastissimo consenso (e anche in Cisgiordania), possa essere messa da parte, tanto più che è proprio Hamas che sta conducendo il negoziato e firma gli eventuali accordi.


Il nodo Hamas rimanda anche alla questione fondamentale che impedisce di pensare seriamente a una soluzione vera per il futuro della regione. Non ci potrà essere mai pace infatti fino a quando tutti non accetteranno il diritto all’esistenza sia del popolo israeliano sia del popolo palestinese. Questa è la condizione necessaria che viene prima di ogni possibile assetto istituzionale; e purtroppo tutto quanto accaduto a partire da quel tragico 7 ottobre 2023 ha aggiunto un altro, enorme, peso su relazioni già caratterizzate da un profondo odio reciproco. Non è certo un mistero che Hamas lotti per la cancellazione di Israele e che almeno una parte della politica israeliana teorizzi l’appropriazione dei territori abitati dai palestinesi. Su queste basi non ci sono alchimie istituzionali che tengano, non si può partire dalle conseguenze.

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Continuare a ripetere la formula “due popoli, due Stati” come l’obiettivo a cui puntare non risponde perciò al problema che sta alla radice, oltre ad essere poco realistico dal punto di vista politico. Due Stati confinanti che desiderano l’annientamento reciproco non portano la pace. Al contrario, l’accettazione reciproca può generare soluzioni istituzionali più realistiche, che tengano anche conto della estrema frammentazione dei territori sotto controllo palestinese. Sarebbe decisamente più realistico pensare a una convivenza in un unico Stato, magari federato. 


Data la situazione attuale è questa comunque una prospettiva lontana nel tempo, ma è importante fin da ora intraprendere la strada giusta per evitare di restare imprigionati in questo ciclo di lunghe guerre e brevi tregue.




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