Lega, veneti uniti come mai prima: Salvini preso in contropiede. Ora a rischio è la Lombardia

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L’azzardo di Stefani (segretario veneto e vice di Salvini), la mossa obbligata del leader, gli equilibri al congresso. Per la Lega, in fase calante e assediata dai meloniani, Zaia è irrinunciabile

Ci sono le dichiarazioni ufficiali e poi ci sono i non detti, pesanti come pietre. La Lega, che pur ha cambiato pelle più volte nell’arco degli ultimi 40 anni, mantiene inalterata una vena pugnace e intestina che a volte risale in superficie. È ciò che sta accadendo in questi giorni con la manovra a tenaglia dei veneti che ha stretto Matteo Salvini all’angolo costringendolo a sostenere apertamente Luca Zaia in primis e la minaccia di una corsa in solitaria alle prossime Regionali contro gli alleati di governo. Una posizione scomoda, ai limiti dell’impossibile. I veneti sono andati in contropiede spiazzando Salvini ma anche i colonnelli lombardi che affilano le armi dopo il loro congresso regionale in vista di quello federale. Spiazzati anche i leghisti «romani» decisamente tiepidi rispetto alle rivendicazioni «identitarie» del Nord. Tanto che, al netto delle dichiarazioni di entusiasta sostegno di Claudio Durigon («Zaia è bravissimo»), pare i «romani» si siano chiusi in un ostinato silenzio per l’intera durata del consiglio federale di ieri, giovedì 16 gennaio.

Il congresso federale

Ha un po’ stupito la linea vagamente marziana di strenua difesa e rilancio del terzo mandato ma la si spiega con un dato oggettivo: Zaia resta imprescindibile per Salvini e la Lega. Piaccia o non piaccia. Il governatore che, forse, non avrebbe più lo stellare 77% del 2020, resta un Moloch che non conviene a nessuno far cadere dal piedistallo, anche dopo lo sgarbo della mancata candidatura alle Europee. Zaia è ancora e sempre il governatore più amato anche al di fuori dei confini regionali. Un asset per la Lega di Salvini che lo sa bene al netto di ogni dietrologia di incompatibilità fra i due. E l’impressione è che si lanci la palla alta (sul terzo mandato) per chiudere su un candidato leghista unitario. E forse proprio su questo ha scommesso Stefani (nato come creatura «salviniana») per mettere davanti al dato di fatto il segretario dopo un’accelerazione progressiva che è esplosa con la benedizione zaiana dei giorni scorsi. Inevitabile per Salvini allinearsi, per diversi motivi: difficile sconfessare le richieste di una regione cardine per la Lega come il Veneto, difficile soprattutto in vista di un congresso federale in cui i delegati veneti potrebbero pesare parecchio, prosaicamente anche solo per l’impennata di tesserati (e sarà un caso che Stefani, vice di Salvini, abbia proprio la delega ai tesseramenti?).




















































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La componente lombarda in difficoltà

Ma cosa può aver spinto Stefani, dipinto storicamente dai detrattori interni come «prudente» e «legato a doppio filo con Salvini tramite Massimo Bitonci e Andrea Ostellari» a questo colpo di testa? «Il fiuto politico» rispondono a mezza voce molti convertiti sulla via di Damasco. Dopo le percentuali in netto calo alle Politiche 2022 e le Europee 2024, il «tesoretto» del giovane segretario si riduceva agli amministratori. Quell’esercito di sindaci, assessori, consiglieri comunali che, nel pieno della bufera meloniana, hanno tenuto la linea del Piave salvaguardando il radicamento della Liga eroso dai tanti delusi passati a votare, per protesta, FdI. E da lì, lo scorso anno, ha cominciato a tessere una tela paziente: il rilancio della scuola politica (affollata), perfetto equilibrismo fra dinamiche regionali con ottimi rapporti con Zaia, super lavoro alla Camera come relatore del ddl Calderoli sull’Autonomia ma anche come presidente della Bicamerale sul federalismo fiscale, uomo di fiducia di Salvini. Fino a concretizzare quel «rovesciamo il tavolo» (del centrodestra, ndr) sperimentando prima alle Provinciali e poi alle Comunali. Il rischio di essere il segretario di un lento declino della Liga dopo decenni di fasti politici si combatte anche così: con una manovra per certi versi azzardata che però, con la mossa del cavallo, ha ricompattato il partito internamente e messo in difficoltà la storicamente dominante componente lombarda. Scaricando proprio al collega Massimiliano Romeo, segretario lombardo e capogruppo al Senato, lo stesso problema: le mire, a quel punto nettissime, di FdI sul Pirellone.

17 gennaio 2025



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