L’economia tedesca sta attraversando la crisi più grave del dopoguerra. Si parla molto di tramonto del “modello tedesco”, ma forse si dovrebbe parlare di crisi strutturale del modello europeo
L’economia tedesca sta attraversando la crisi più grave del dopoguerra: la Grande Germania è in recessione per il secondo anno consecutivo (-0,2 e -0,3 per cento del pil rispettivamente nel 2024 e nel 2023) e non dà segnali di ripresa. Ci si interroga molto sulle difficoltà dell’economia tedesca, si parla di tramonto del “modello tedesco”, ma forse si dovrebbe parlare di crisi strutturale del modello europeo.
Negli ultimi due decenni tutti gli indicatori di dinamismo economico hanno avuto un andamento peggiore e deludente in Europa rispetto agli Stati Uniti. La Tfp è uno di questi, ma anche la produttività in generale, il numero di brevetti, il tasso di natalità di start up innovative e così via. Per capire meglio quanto l’Europa abbia perso terreno rispetto agli Stati Uniti immaginiamo che i paesi membri dell’Ue siano stati degli Usa. Se consideriamo il ventennio 2000-2021, in termini di pil pro capite molti paesi europei hanno perso posizioni nella graduatoria della ricchezza: 14 stati Ue hanno peggiorato la loro posizione relativa in termini di pil pro capite rispetto ai 50 stati Usa. La Francia era pari al 36esimo stato più ricco degli Usa nel 2000 e ora è al 48esimo posto: oggi la Francia ha un pil pro capite all’incirca pari all’Arkansas. La Germania è passata dal 31esimo al 38esimo posto, cioè oggi pari all’Oklahoma. L’Italia è oggi sui livelli del Mississippi, perdendo 25 posizioni rispetto al 2000.
Si sta allargando insomma il divario di reddito tra Usa ed Ue. Buona parte dei paesi europei segue il modello di crescita tedesco, fondato su contenimento dei salari, risparmio, compressione dei consumi interni, esportazioni. In sostanza, non solo la Germania ma anche altri paesi europei hanno assegnato alla domanda estera la funzione di trascinare la crescita. Con risultati a dir poco modesti. In media, il pil pro capite europeo è cresciuto solo dell’1,6 per cento tra il 2010 e il 2021 contro il 3,4 degli Usa.
Il nodo cruciale è il ritardo in termini di innovazione accumulato dall’Europa rispetto agli Usa e alla Cina. Nell’Ue la spesa in R&S, pubblica e privata, è stata nel 2021 pari al 2,2 per cento del pil, negli Usa del 3,5 per cento. In termini assoluti il divario è impressionante. L’Ue investe 322 miliardi di euro in R&S mentre gli Usa investono 730 miliardi di euro, più del doppio. E’ soprattutto la spesa privata quella che scarseggia in Europa. La differenza tra Europa e America è anche in termini del focus tecnologico della spesa. Nell’Ue gli investimenti in R&S dei privati sono concentrati nelle mid-tech industries: automobili, macchinari industriali, chimica e sistemi di telecomunicazioni. In Europa, primi tre più grandi investitori in R&D erano nel 2003 Mercedes, Siemens e Volkswagen, nel 2022 erano Volkswagen, Mercedes e Bosch. Un quadro immobile, insomma sotto il profilo dei settori e degli attori. In Usa, nel 2003 in cima alla classifica c’erano Ford, Pfizer e General Motors mentre nel 2022 Amazon, Alphabet e Meta. Meta da sola investe in ricerca più di tutte le top-50 imprese della Francia.
L’Europa in pratica ha rafforzato la propria posizione di vantaggio in settori maturi e a media tecnologia, mentre gli Usa prendevano il dominio in gran parte dei settori alla frontiera della tecnologia. La partita in settori come l’AI è oggi tutta tra America e Cina. L’Europa ha accumulato un ritardo difficilmente colmabile: è insomma finita nella “trappola del medium-tech”. La parabola tedesca ne è oggi la sintesi più chiara ma un po’ tutto il continente è bloccato. Un punto importante sono le politiche per l’innovazione e la governance degli aiuti alla ricerca e all’innovazione. Le politiche per l’innovazione europee sono in gran parte destinate alle piccole e medie imprese e alle startup, questo nell’intento di compensare il mancato sviluppo del venture capital e di un mercato finanziario integrato capace di sostenere la crescita delle pmi.
A differenza degli Usa e della Cina, solo una piccola quota dei fondi europei finisce per finanziare davvero le innovazioni radicali capaci di avviare nuove traiettorie tecnologiche. L’European Innovation Council, la cabina di regia delle nostre politiche per l’innovazione, segue inoltre logiche molto farraginose e burocratiche, è gestito da funzionari amministrativi e il peso degli scienziati e dei tecnologi è molto minore rispetto agli omologhi organi americano e cinese. Ma in generale serve un ripensamento del modello di crescita che dovrebbe diventare innovation-driven e non più export-driven come da anni avviene in Germania, in Italia e in altri paesi del continente.
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