Gaza. Raggiunto l’accordo per il cessate-il-fuoco. Ma non ci sono vincitori

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Di Giuseppe Gagliano 

L’accordo raggiunto a Doha grazie alla mediazione di Egitto, Usa e altri attori internazionali, prefigura un cessate-il-fuoco che dovrebbe entrare in vigore domenica e portare, attraverso varie fasi, allo status quo precedente la guerra. Hamas ha provveduto a liberare 33 ostaggi, i militari israeliani dovrebbero ritirarsi gradualmente e nei prossimi giorni verranno aperti i valichi per far entrare nella Striscia, che conta oltre 2 milioni di persone stipate in 360 km quadrati, gli aiuti umanitari. Tuttavia è bene non lasciare spazio a illusioni: non ci sono vincitori né vinti e, per quanto Hamas abbia elogiato la resistenza del popolo e abbia cantato vittoria, la situazione non vede nessun risultato politico apprezzabile. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sottoposto a forti pressioni dalla comunità internazionale e con un mandato di arresto internazionale sulla testa a causa dei 46mila palestinesi uccisi di cui un terzo bambini, si deve scontrare con le ire dell’estrema destra religiosa del suo governo, che sta minacciando di lasciarlo in panne.
Israele non ha infatti raggiunto l’obiettivo dichiarato di eliminare militarmente Hamas, mentre il movimento palestinese ha resistito nonostante tutto, compreso il venir meno dell’appoggio di Hezbollah. Rimane quindi sul campo un equilibrio instabile, che riflette più il fallimento delle strategie militari e politiche che un reale progresso verso la pace.

L’obiettivo di Tel Aviv era chiaro fin dall’inizio: annientare Hamas, non solo come forza militare ma anche come entità politica. Un’ambizione non nuova, già annunciata in passato, ma mai realizzata. Nonostante mesi di operazioni, Israele non è riuscito a cancellare la struttura organizzativa di Hamas, che continua a operare, dimostrando una sorprendente resilienza e soprattutto una forte espansione in Cisgiordania, dove Al-Fatah non va al voto da anni nel timore di perdere le elezioni.
Hamas ha subito perdite enormi: migliaia di miliziani uccisi e una devastazione senza precedenti nella Striscia. Eppure, secondo fonti israeliane, il movimento mantiene una significativa capacità operativa, tanto che solo pochi giorni fa le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno colpito oltre cinquanta obiettivi. Questo conferma che la minaccia di Hamas è tutt’altro che debellata, rendendo sempre più evidente come l’operazione militare israeliana non abbia raggiunto il suo scopo.
Per Hamas sopravvivere all’assalto israeliano rappresenta effettivamente una forma di vittoria. Dopo il devastante attacco del 7 ottobre e le successive operazioni israeliane, il movimento si è riorganizzato reclutando migliaia di nuovi combattenti tra una popolazione esasperata dalle distruzioni e stretta nella morsa della fame, con i bambini che morivano di freddo. Questo dato evidenzia che, lungi dall’essere eliminata, la struttura di Hamas è ancora profondamente radicata nella società palestinese.

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Se la resistenza a Gaza si è dimostrata tenace, il futuro rimane però incerto. Israele non accetterà mai una tregua che lasci Hamas al potere, e le condizioni per una stabilizzazione a lungo termine appaiono ancora lontane.
A livello geopolitico la partita si allarga al ruolo dell’Iran e del suo sistema di alleanze regionali. Nonostante i duri colpi subiti da Hamas e Hezbollah, il sistema dei proxy iraniani non è stato disarticolato. Hezbollah continua a operare in Libano e gli Houthi dello Yemen vantano successi geopolitici rilevanti, come la minaccia al traffico marittimo nel Mar Rosso.
L’eliminazione di diversi leader di Hamas e di Hezbollah, pur avendo un forte impatto simbolico, non ha cambiato la dinamica del conflitto. Questi movimenti sono preparati a gestire ricambi interni e a mantenere il controllo delle proprie basi operative.
La tregua raggiunta è stata frutto delle pressioni congiunte di Stati Uniti ed Egitto. Per quanto il presidente eletto Usa Donald Trump abbia fatto passare la sospensione delle ostilità per un suo successo personale, in realtà l’amministrazione Biden ha investito molto nel processo. Vero è che Trump è molto amico di Netanyahu, e già la sua salita alla Casa Bianca, prevista per il 20 gennaio, ha fatto pesare la sua inclinazione a stabilizzare l’area.

L’Egitto dal canto suo è stato un mediatore fondamentale, insistendo sul ritiro israeliano dal corridoio di Filadelfia, al confine con il Sinai. Questo tratto è strategico per il controllo del contrabbando, ma il suo presidio da parte di Israele è percepito come una violazione della sovranità egiziana.
Dopo più di un anno di conflitto, la domanda fondamentale rimane: a cosa è servita questa guerra? Se Hamas rimane saldamente al potere e le tensioni nella regione continuano, il rischio è che si sia combattuto inutilmente, accumulando solo distruzione e sofferenza.
L’attuale tregua rappresenta una pausa, non una soluzione. Gaza resta un nodo irrisolto del Medio Oriente, il simbolo di un equilibrio impossibile tra la sicurezza di Israele e le aspirazioni palestinesi. Ma forse, come suggerisce il possibile ritorno di Trump, è il momento di immaginare una nuova via, dove la diplomazia prenda finalmente il posto delle armi.

FONTE: https://www.notiziegeopolitiche.net/gaza-raggiunto-laccordo-per-il-cessate-il-fuoco-ma-non-ci-sono-vincitori/



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