Il monumento del basket italiano compie 75 anni: da Belluno a Varese e Milano. «L’Eurolega più interessante del campionato Usa. Oggi si tira sempre di più da tre, troppo facile: bisogna allargare il campo»
Dino Meneghin, il 18 gennaio il monumento nazionale del basket italiano fa 75 anni. Auguri.
«Dico sempre che sui monumenti ci vanno piccioni a fare i loro bisogni. E se l’età anziché aumentare diminuisse, ci sarebbe più voglia di festeggiarla. Faccio un anno in meno? Allora champagne per tutti, pago io!»
Se non sull’anno, restiamo allora sul luogo di nascita. Alano di Piave, provincia di Belluno.
«Ci ho vissuto solo da bambino, ma ci sono rimasto legato. Abitavamo a Fener, una frazione, proprio sul Piave, i miei ricordi sono legati al fiume, le scorribande di ragazzini tra i boschi, le capanne, le lunghe camminate, i giochi all’aperto».
Persone, amicizie di allora?
«Lì ho fatto solo fino alla prima elementare, col tempo ho perso i contatti, ma ho un amico, Andrea Tolaini, è tra quelli che vollero darmi la cittadinanza onoraria, qualche anno fa. Altra cosa Domegge, dove abitavano i miei nonni e c’è ancora mio cugino Gianmario. Ci andavo sempre d’estate, anche per tornei e camp estivi, ora mi capita più saltuariamente. Ma un legame resta sempre».
Almeno un pezzetto del grande Meneghin, lo si può attribuire al Veneto?
«Mio padre per lavoro portò la famiglia a Varese nel 1958, io avevo 8 anni. Da lì in poi per tutta la vita ho vissuto in Lombardia, a parte solo i tre anni che ho giocato a Trieste. Mi sento di formazione lombarda, anche se le radici non si dimenticano. Mia madre era di Udine, ma mio nonno e mio padre di Refrontolo, provincia di Treviso. Razza Piave, certo. Ecco, quella è un’etichetta che mi è sempre piaciuta: vuol dire onestà, dedizione e lavoro. Quanti grandi campioni, di tutti gli sport, vengono quelle parti?».
La sua vita ha orbitato quasi interamente su due sole città, Varese e Milano.
«Diversissime in un senso, uguali in un altro. Varese l’esempio perfetto della provincia italiana produttiva, artigiani che sanno fare il loro mestiere, ritmi tranquilli e forte senso della comunità, Milano la metropoli che offre mille possibilità diverse. In comune, il lavoro. Nel basket, con la stessa ricetta del successo: un presidente che mette i soldi, un general manager che dirige, un allenatore che allena, e stop. Ognuno responsabile unico nel proprio settore, e nessun altro che mette becco».
Guarda ancora molte partite?
«Abbastanza, per lo più Serie A e Eurolega. Di Nba solo qualche highlight, una partita intera mai, non riesco. Là ormai sempre punteggi altissimi, ritmi vertiginosi, tiro da tre e poca difesa. Ma si sta andando un po’ tutti in quella direzione lì, e non è un bene».
È tra quelli che considerano l’Eurolega migliore dell’Nba?
«Diciamo più interessante. Ho sempre preferito il gioco di squadra alle prodezze dei singoli, per quanto forti possano essere. Ogni tanto mi piace vedere un gioco a due ben fatto, un attacco fatto di letture e movimenti senza palla. Invece spesso c’è il playmaker che palleggia, palleggia, palleggia, e a quel povero pivot non gliela passa mai».
Si tira troppo da tre punti?
«Si, troppo. È che ormai tirano benino tutti, anche i lunghi. In Europa poi la distanza è anche po’ inferiore all’Nba ed è diventato troppo facile. La mia soluzione? Allargare il campo, allontanare la linea. Toglierlo come dice qualcuno no, renderlo un po’ più difficile sì».
Da una vita ormai le nostre squadre in Europa non sono più protagoniste.
«Quest’anno entrambe massacrate di infortuni, Milano tutto sommato è in corsa, la Virtus Bologna ha dovuto pagare. Ma in generale competere è diventato difficilissimo, con le greche, le turche, le spagnole che sono tutte superpotenze. Eppure qualche esempio virtuoso c’è, società capaci di fare bene con meno soldi ma buone idee. Ad esempio Parigi, la novità di quest’anno».
Anche la Nazionale fa fatica, da anni.
«Stesso discorso: tempi difficili, concorrenza fortissima. Dai miei tempi il numero di nazionali forti si è moltiplicato. Buoni giocatori ne avremmo, solo che trovano poco spazio nelle rispettive squadre, emergere ad alto livello è diventato molto più duro. Almeno in campionato vorrei che gli italiani giocassero di più. Resto il loro primo tifoso».
Lei ha smesso di giocare nel 1994. Sono passati trent’anni, ma un nuovo Dino Meneghin non c’è più stato.
«Ognuno è se stesso, i tempi cambiano e i confronti non hanno senso. Però è vero che di giocatori molto forti ne abbiamo prodotti tanti in tutti i ruoli, fuorché tra i centri. Storicamente facciamo fatica a costruire lunghi, i motivi sono tanti, compresa la pallavolo che ce li porta via. Ma buoni giocatori ce ne sarebbero, a me è sempre piaciuto Tessitori della Reyer, ultimamente mi piace Totè di Napoli, che è veronese tra l’altro».
Lei è stato anche presidente federale. Cosa dice all’appena rieletto Petrucci?
«Uno con la sua esperienza non ha bisogno di consigli. Dobbiamo solo augurargli di fare un buon lavoro, nell’interesse di tutti».
Nessuno ha vinto quanto lei, eppure ancor oggi ricorda spesso di un sogno mai realizzato: la chiamata dei New York Knicks, nel 1974, a cui non poté rispondere.
«Menisco rotto, non se ne fece niente, ma fu già un grande onore, per quei tempi, essere stato preso in considerazione. Almeno lo venni a sapere. Di quando invece mi avevano scelto gli Atlanta Hawks, qualche anno prima, l’ho saputo solo molto tempo dopo dai giornali».
L’America era un altro pianeta.
«C’ero stato con la Nazionale, in tournée contro alcune grandi squadre di college, ma andammo anche al Madison Square Garden a vedere una partita Nba, New York contro Boston. Rimasi affascinato da tutto: le luci, i colori, il pubblico, quel palazzo così grande e quei giocatori favolosi. Nei Knicks giocava John Gianelli, che poi ho avuto come compagno quando vincemmo il primo scudetto con il Billy Milano. Ancora oggi, se ci sono i Knicks in tv, un’occhiata la dò».
Fosse andato, avrebbe vinto un po’ meno dei suoi 12 scudetti, 7 coppe campioni, più tutto il resto…
«Mi è rimasto per sempre un grande punto di domanda: chissà come sarebbe andata. Forse mi sarebbe toccato fare solo della panchina, o forse no. Vorrà dire che ci andrò nella prossima vita».
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