Apparecchia e sparecchia, inciucia, litiga e perdona. Renzi il «martellatore» (nonostante il 2%)

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di
Fabrizio Roncone

Il nuovo fronte del leader sono le sorelle Meloni

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Non è che i giornalisti siano fissati con Matteo Renzi. E’ che lui salta dentro le pagine dei quotidiani, nei nostri siti, e ogni giorno porta titoli e polemiche, tiene banco anche se ha pochissime carte in mano, guida un partito che lì sotto boccheggia al 2%, eppure sta sempre sul pezzo e non molla, appena può si prende la scena (i passeggeri dei Frecciarossa tutti pazzi per lui quando dice: «Salvini, buffone, dimettiti!»), provoca e rilancia, inciucia (poi vedremo che sta combinando con Pier Ferdinando Casini), apparecchia e sparecchia, litiga e perdona, incline alla vendetta (tra un po’ arriviamo anche alla legge che a Palazzo Chigi gli hanno cucito addosso), persona di sentimenti misteriosi, abile a dispensare simpatia e perfidia, sempre sicuro e veloce, di rara intelligenza, di rarissima spregiudicatezza, pieno di quel noto meraviglioso talento politico sprecato, comunque per noi cronisti davvero pura luce in un panorama spesso piatto, modesto, senza elettricità, senza lampi, al punto che l’opposizione al governo – ormai da qualche settimana – sembra guidarla da solo quest’uomo di 50 anni compiuti sabato scorso (con ricevimento da vero sultano, a Viareggio, tutti in smoking e abito lungo) convinto di avere, ancora, un futuro pazzesco.

«Le sorelle della Garbatella capiranno cosa significa incontrare il vero cavaliere nero», dice – minaccioso – citando la famosa barzelletta di Gigi Proietti. Allude a Giorgia e Arianna Meloni? «Il 2025 si preannuncia un anno politicamente interessante per chi non si piega al diktat dei camerati», scrive su X la sera dello scorso 28 dicembre. È furioso. Nella legge di Bilancio hanno appena infilato «una norma ad personam, contro di me, scritta alle quattro del mattino a Palazzo Chigi e presentata dai relatori nottetempo», in cui si vieta a parlamentari, europarlamentari e governatori di avere incarichi retribuiti fuori dall’Unione europea, pena l’obbligo di versare il 100% del fatturato allo Stato. Tutti abbiamo subito pensato alle discusse, e discutibili, conferenze che Renzi tiene nell’Arabia del principe saudita Mohammad bin Salman. Conferme: il ghigno soddisfatto del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. E poi molti Fratelli che si davano di gomito: «Tiè, sto’ arrogantello toscano». In aula, al Senato, con la diretta tivù, Renzi ha attaccato duro. Tra rumori di sottofondo, brusio dall’ala destra dell’emiciclo. Il presidente Ignazio La Russa allora ha spiegato che non poteva obbligare nessuno al silenzio totale, come al cinema. E lui, Renzi: «Lei, camerata La Russa, deve abituarsi a rispettare le istituzioni…».




















































Sull’agenda di Renzi, adesso, c’è scritto: creare un problema al giorno non tanto al governo, quanto proprio a G&A, le sorelle. Diciamo che sa come si fa. Conosce il gioco. Scalò il Pd rottamando chiunque e, da segretario, lo portò al 40,81% (Europee 2014). È stato il premier più giovane della storia italiana («Ma la classifica è inquietante – ha ricordato alla Stampa – Il secondo è stato Mussolini, che è durato di più, però è finito peggio»). 

Poi, certo: la scissione, il tonfo, qualche processo, le liti con gli alleati. Gli autori dei talk tv, però, lo adorano: quando c’è lui, la gente non cambia canale. Non lo votano, ma lo ascoltano. Pure quando dice: «Adesso è diventata una questione di principio. Anche perché la norma che dovrebbe penalizzarmi economicamente, sul mio reddito incide solo per il 10%» (la sua ultima dichiarazione ammonta a 2,3 milioni, quasi un milione in meno del 2022).

L’anatema di Renzi è: alla Meloni, in un modo o nell’altro, faccio fare la fine di Conte. Intendiamoci: lo sa bene che, a differenza del governo giallorosso, l’attuale esecutivo campa tranquillamente senza i voti (pochi) di Iv. Ma lui è già oltre la rabbia, e forse non è nemmeno più solo una questione di vendetta: a tenerlo su di giri è l’eccitazione per l’ennesima sfida, la ricerca del trappolone (il fido Bonifazi ha già presentato due interrogazioni alla Camera: per accertare l’entità dei regali ricevuti dalla premier e sulle modalità con cui ha acquistato la nuova casa), Renzi sogna il grande inciampo mediatico per «la regina Giorgia», a oggi nemmeno immaginabile, e che perciò sarebbe capolavoro, e gli confermerebbe di essere ancora Matteo Renzi.

Anche al festone in Versilia, tra un ballo e una cantata di quelli dell’Anema e Core, i camerieri che servivano risotto all’aragosta e champagne, lui soffiava spavaldo il suo progetto visionario agli invitati, che lo guardavano con interesse: c’erano tutti i ministri del suo governo, una bellissima Boschi, mancava solo Calenda (nemmeno invitato, vabbè), e poi anche molti altri, tra cui Pier Ferdinando Casini.

Fate attenzione: i due sono molto amici. E Renzi aveva pensato, e diciamo che ancora pensa, proprio a Casini come leader del nuovo centro. Lo reputa il personaggione giusto. Con i cromosomi perfetti per federare le diverse anime di un partito centrista da affiancare al Pd: «Senza un centro cattolico, liberale, riformista accanto alla Schlein, le elezioni non si vincono». Casini avrebbe declinato (legittimamente, continua a pensare al Quirinale). Renzi ha finto di capire. Ma se quelli che domani si riuniscono a Milano (Ruffini&company) e a Orvieto (Gentiloni&company) pensano di decidere qualcosa senza Renzi, non hanno capito chi è Renzi.

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16 gennaio 2025

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