salta il rapporto con i pazienti. Cosa succede ora

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Medici di base in subbuglio per la ventilata riforma del settore, che vuole trasformarli da liberi professionisti a dipendenti del servizio sanitario nazionale. Creando anche non pochi stravolgimenti dal punto di vista previdenziale e ripercussioni per l’Enpam, ente dei medici e odontoiatri, che possono di riflesso costare caro alle casse dello Stato. L’obiettivo da parte del governo è quello di spostarli nelle circa 1.400 case di comunità, che devono essere realizzati grazie a 7 miliardi finanziati dal Pnrr.

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Quelli che un tempo si chiamavano “medici di base” denunciano che questo orientamento porterà a uno svuotamento della professione e a un peggioramento del servizio ai pazienti: salterebbe il rapporto fiduciario, diretto, che garantisce livelli di cura costante e personalizzati. Rapporto fiduciario che difficilmente si potrebbe ricreare in una realtà simil ospedaliera. A maggior ragione in questa fase storica in cui crescono sia l’invecchiamento della popolazione sia il numero (oltre 5 milioni) di soggetti non autosufficienti.

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Eppoi non c’è da sottovalutare un altro aspetto: il passaggio dei medici di base da liberi professionisti a dipendenti pubblici metterebbe a rischio la stabilità finanziaria di Enpam. L’ente dei medici che non svolgono attività di dipendenza ma di convenzione per il Ssn o gli odontoiatri, perderebbe via via i suoi iscritti, andrebbe verso l’assorbimento nell’Inps, con non pochi aggravi per le casse pubbliche per “salvarla”. Da dipendenti pubblici, questi medici verserebbero alla stessa Inps.

LE IPOTESI

Nessuno ha ancora visto la bozza definitiva, ma da settimane girano rumors sulla riforma della medicina generale che vanno in un’unica direzione: il ministero della Salute, con un decreto ad hoc, stabilisce di assumere i futuri medici di base e i pediatri di libera scelta come dipendenti del Sistema sanitario nazionale, superando l’attuale schema che li vede liberi professionisti “convenzionati” con il Ssn. Stando alle nuove regole, i nuovi iscritti degli attuali 37mila dottori di famiglia diventerebbero dipendenti pubblici. Gli altri tuttora operativi in ogni caso dovrebbero fornire al servizio sanitario nazionale tra le 14 e le 16 ore a settimana di lavoro nelle strutture pubbliche. L’obiettivo del governo è garantirsi, in questo modo, personale per le future di 1.400 case di comunità i “Cot” (le centrali operative territoriali). Lo schema avrebbe l’appoggio delle regioni come Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia, che, guarda caso, spingono di più verso l’autonomia differenziata.

IL PIANO

Attraverso la missione 6 del Pnrr l’Italia ha indirizzato 7 miliardi verso l’assistenza di prossimità: strutture intermedie come case e ospedali di comunità e servizi avanzati di telemedicina. L’obiettivo è alleggerire la pressione sugli ospedali, da destinare soltanto ai malati acuti. Ma per far funzionare le nuove strutture servono i dottori. Siccome in Italia c’è un deficit di 15mila camici bianchi nei nosocomi, si guarda ai medici di famiglia.

La categoria non sembra entusiasta di questa prospettiva. Come detto, teme un peggioramento del servizio verso i pazienti, che vedono garantito di più il vincolo di prossimità con gli ambulatori che con le future strutture territoriali. Eppoi il passaggio a dipendenti rischia di svuotare una professione che necessita di 3mila operatori in più e che nel 2012 ne vedeva impegnati 45mila. C’è poi da fare i conti con i pensionamenti: da qui al 2030 e compresi i pediatri di libera scelta, usciranno in 28mila – senza dimenticare che in molti lasciano questo lavoro senza aspettare l’età di quiescenza e si riconvertono in “gettonisti” per le cooperative che forniscono medici agli ospedali.

I sindacati fanno notare che per garantire personale alle future case di comunità non è necessario cambiare il contratto di lavoro. Nell’ultimo Accordo collettivo nazionale firmato tra il ministero e la categoria lo scorso 24 maggio è previsto che i medici di base debbano fornire complessivamente al Ssn 20 milioni di ore di servizi. Si passa dalle 38 ore a settimana garantite da chi ha meno di 400 pazienti in carico alle 6 ore per chi ne ha oltre 1.500. E una parte di questi turni, con un semplice atto amministrativo, potrebbero essere effettuati nelle strutture intermedie, senza mettere a rischio l’attuale sistema. Sia sul fronte delle cure sia su quello finanziario che regge la stabilità dell’Enpam.

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