GIUSTIZIA: SEPARAZIONE DELLE CARRIERE, QUALE IL RISCHIO?

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Dario Gedolaro

 Torna di attualità in Parlamento e sui mass media la separazione delle carriere dei magistrati: una corsia per i pubblici ministeri, l’altra per i giudici. Ed è un gran rimbombare di polemiche. La maggioranza dei magistrati è contraria, la maggioranza dei politici (il centro destra più i renziani) favorevole. Chi contrasta questa riforma agita lo spettro di pubblici ministeri al servizio della politica, cioè sotto il controllo del ministro della Giustizia (non si sa però sulla base di quale progetto di legge, visto che quello attualmente in discussione non lo prevede). Chi invece sostiene la separazione delle carriere pensa che essa favorirebbe giudizi più equi da parte dei Tribunali, meno condizionati da rapporti di “colleganza” e quindi di contiguità con i pubblici ministeri. Chi ha fatto esperienza di cronaca giudiziaria sa che il problema non è del tutto campato in aria. In alcuni casi, soprattutto in passato, è valso il criterio del “cane non morde cane”. Negli ultimi tempi sembra che – proprio da quando pende la spada di Damocle della separazione delle carriere – le Corti dimostrino più indipendenza di giudizio dai loro colleghi pubblici ministeri.

La Giustizia

La critica alla riforma non è però uniforme. Proprio in questi giorni, sul Corriere della Sera, l’ex magistrato ed ex membro del Csm, Luciano Violante, pur essendo contrario alla legge, affronta il tema da una diversa prospettiva. Innanzi tutto sostiene che la separazione delle carriere è “un tentativo di riequilibrio dei rapporti tra politica e magistratura, a vantaggio della politica, dopo circa mezzo secolo di primato della magistratura. L’esigenza è fondata”. Subito però aggiunge: “Tuttavia non vanno sottovalutati i rischi della soluzione proposta”.

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Per Violante il rischio vero è l’opposto di quello che paventano i suoi colleghi contrari: “Separare dai giudici i circa 1500 pubblici ministeri e costruire per loro un apposito CSM, distinto dal CSM dei giudici, significa creare una nuova corporazione giudiziaria del tutto autogestita. Una sorta di superpolizia, priva di controlli, separata dai giudici, autogovernata, dotata di formidabili poteri di ingerenza nella vita dei singoli, delle famiglie, delle imprese e della stessa politica, con rischi rilevanti per le libertà di tutti i cittadini. Si tratterebbe di una istituzione illiberale sconosciuta ai paesi civili”. Dunque un’autonomia ancora maggiore, non un asservimento alla politica.

Violante riconosce poi che in Francia e Germania le due funzioni, di giudice e di pm, sono distinte” e che “in quei paesi i pm dipendono dal ministro della giustizia; l’azione penale è discrezionale” e non obbligatoria come in Italia. Ma ricorda che “il passaggio da una funzione all’altra non è vietato, come sarebbe da noi, anzi è ritenuto, soprattutto in Francia, un titolo di merito perché arricchisce l’esperienza professionale”. E conclude: “Pertanto le critiche al progetto, sfrondate dalla tendenza alla difesa dell’esistente, andrebbero considerate con attenzione perché pongono una questione di libertà: sono a rischio l’attività politica e alcuni fondamentali diritti dei cittadini: alla reputazione, alla riservatezza, alla libertà personale, alla proprietà”.

Quell’inciso: “sfrondate dalla tendenza alla difesa dell’esistente” non è ininfluente. Perché questa “tendenza” è assai presente nelle file dei magistrati, corporazione che in gran maggioranza aborrisce qualsiasi novità la riguardi.

Torino – Palazzo di Giustizia

Ma, alla fine, rimane la sensazione che questa legge non stravolgerebbe l’amministrazione della giustizia, visto che, come scrive ancora Violante,“l’iniziativa per avviare un processo penale spetterebbe comunque al pm”. Non solo, dal 2022 con la Riforma Cartabia (Governo Draghi) le richieste di passaggio di funzione sono state appena una ventina su un organico di quasi 10.000 magistrati, perché la legge prevede che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa possa avvenire soltanto una volta nel corso della carriera entro 10 anni dalla prima assegnazione delle funzioni. Trascorso tale periodo, è ancora consentito, per una sola volta, e nella pratica implica che si cambi lavoro, cioè si finisca ad agire su un diverso rito procedurale, passando dal penale al civile o al diritto del lavoro.

Quindi, visti i già attuali severi vincoli, quale rischio per l’autonomia dei magistrati comporterebbe la nuova legge? Più fondata appare la considerazione che l’esercitare le due funzioni – quella inquirente e quella giudicante – possa arricchire l’esperienza professionale dei magistrati. L’impressione è dunque che, come al solito, il teatrino della politica italiana abbia trovato un altro pretesto per dare il peggio di sé, con polemiche pretestuose che confondono ulteriormente le idee ai cittadini, spinti perciò a non andare più a votare. E questo è, sì, un rischio per la democrazia.

Comunque, trattandosi di un disegno di legge costituzionale per la separazione delle carriere è necessaria una doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento, con un intervallo di tempo non minore di tre mesi. Se in seconda lettura il provvedimento non ottiene la maggioranza qualificata dei due terzi, potrà essere sottoposto a referendum entro tre mesi (su iniziativa di un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali).



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