di Andrea Tornielli
Il recente discorso del Papa al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, oltre alla consueta panoramica sul mondo, sulle tante preoccupazioni e sofferenze come pure sui segnali di speranza, conteneva elementi significativi sui rischi da evitare per arrivare al negoziato e alla pace.
Parlando delle istituzioni multilaterali, nate per lo più alla fine del secondo conflitto mondiale, il Successore di Pietro faceva notare come esse «non sembrano più in grado di garantire la pace e la stabilità, la lotta contro la fame e lo sviluppo per i quali erano state create, né di rispondere in modo davvero efficace alle nuove sfide del xxi secolo, quali le questioni ambientali, di salute pubblica, culturali e sociali, nonché le sfide poste dall’intelligenza artificiale». Dopo aver constatato che «molte di esse necessitano di essere riformate, tenendo presente che qualsiasi riforma deve essere costruita sui principi di sussidiarietà e solidarietà e nel rispetto di una sovranità paritaria degli Stati», Francesco ha parlato del rischio di quella che ha definito “monadologia” e della «frammentazione in like-minded clubs che lasciano entrare solo quanti la pensano allo stesso modo».
In effetti, oggi molto più che in passato, complice anche una cultura digitale dove passano messaggi semplificati, ad ogni livello il senso di appartenenza identitario rappresenta sempre meno un’occasione di dialogo e di confronto con chi ha identità e opinioni diverse, e sempre di più un recinto nel quale ci si rinchiude per contrapporsi.
Più volte ormai, dopo lo scoppio della guerra di aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina, conflitto devastante nel cuore dell’Europa cristiana, Papa Francesco ha evocato lo “spirito di Helsinki”, cioè quel piccolo “miracolo” che nel 1975 aveva permesso a Stati contrapposti e considerati “nemici” di creare uno spazio d’incontro.
Impossibile riproporre oggi quel paradigma nei suoi tratti contingenti: la riservatezza con cui vennero custoditi per mesi quei dialoghi sarebbe difficilmente preservata oggi nell’era dei social media. Ma lo spirito che aveva animato i protagonisti responsabili delle nazioni del mondo allora diviso in due blocchi è qualcosa di cui oggi ci sarebbe davvero tanto bisogno.
Dialogo, confronto, negoziato e trattativa vengono spesso dipinti come segni di debolezza e di arrendevolezza. La possibile soluzione dei conflitti viene vista soltanto nella vittoria finale dell’uno sull’altro.
È lungimirante lo sguardo del Vescovo di Roma, che nello stesso discorso ai diplomatici ha voluto ricordare: «Una diplomazia della speranza è pure una diplomazia di perdono, capace, in un tempo pieno di conflitti aperti o latenti, di ritessere i rapporti lacerati dall’odio e dalla violenza, e così fasciare le piaghe dei cuori spezzati delle troppe vittime».
La guerra ad ogni costo non ha soltanto dei costi altissimi in termini di perdita di vite umane, di lutti e di sofferenze imposte alle famiglie, di stragi di bambini innocenti, di città sventrate, di ambiente devastato. Ha anche dei costi altissimi in termini di possibile costruzione del futuro. Perché se bastano cospicui finanziamenti per tirar su di nuovo una città rasa al suolo dalle bombe, non esistono soluzioni a buon mercato per rimarginare le ferite nei cuori delle persone e dei popoli.
Come sanare le ferite aperte tra russi e ucraini, dopo quanto abbiamo visto in questi quasi tre anni di conflitto? Come sperare in generazioni di giovani che lavorino per la pace, il dialogo e la convivenza, dopo che i kibbutzim israeliani sono stati barbaramente trucidati da Hamas e dopo che Gaza è stata rasa al suolo provocando oltre 46mila morti e una situazione umanitaria che il Pontefice ha definito «gravissima e ignobile»?
C’è bisogno di una “diplomazia di perdono”. C’è bisogno di comprendere che la frenesia della corsa al riarmo lungi dall’avere una funzione di deterrenza come accadde al tempo della Guerra Fredda, rischia oggi di precipitare il mondo intero nel baratro, nell’avventura senza ritorno di un conflitto globale. «La guerra — ha detto Francesco al Corpo diplomatico riecheggiando le parole dell’enciclica Fratelli tutti — è alimentata dal continuo proliferare di armi sempre più sofisticate e distruttive. Reitero l’appello affinché con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa».
Grazie a Dio non mancano, in quest’inizio di anno giubilare, barlumi di speranza. «Qualche segno incoraggiante è apparso all’orizzonte», ha detto il Papa parlando della situazione Ucraina in relazione a possibili negoziati. Come pure si spera che si arrivi alla tregua per Gaza, con la liberazione degli ostaggi ancora imprigionati e la possibilità di far giungere alla popolazione palestinese gli aiuti necessari per sopravvivere. E sono buone notizie l’annunciata graduale scarcerazione di 553 detenuti nelle carceri cubane in risposta all’invito giubilare di Francesco, come pure le 37 condanne a morte federali commutate in ergastoli alla fine dell’anno dal presidente degli Stati Uniti e la decisione dello Zimbabwe di abolire la pena capitale.
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