misure che non bastano contro la violenza

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  Sei casi, sei vite distrutte e una domanda che pesa su tutto: queste misure cautelari sono davvero la risposta adeguata? In una terra dove la violenza si annida tra le mura domestiche, dove le vittime vivono prigioni che non hanno sbarre ma che soffocano ugualmente, le soluzioni offerte dalla giustizia sembrano spesso timide, persino inefficaci.

Arresti domiciliari con braccialetto elettronico, ricovero forzato in una casa di cura, divieti di avvicinamento: è questo il massimo che possiamo fare contro chi perpetra violenze contro donne, minori e anziani? Un 52enne, responsabile di molestie sessuali su studentesse minorenni, ottiene la modifica della custodia cautelare in carcere con i domiciliari, dopo appena nove mesi. Nove mesi per reati che lasciano cicatrici che durano una vita.

  Un 50enne, accusato di maltrattamenti contro l’anziana madre, viene ricoverato in una casa di cura. Un 48enne, che ha aggredito la propria compagna davanti alla figlia minore, viene allontanato con un divieto di avvicinamento e un braccialetto elettronico. La giustizia parla di “misure adeguate”, ma adeguate a chi? Non certo alle vittime, che continuano a vivere nell’ombra della paura.

La Questura di Oristano mostra i risultati: sei denunce, tre misure cautelari. Ma basta un numero per mascherare l’evidente debolezza di un sistema che non sa proteggere chi è vulnerabile? Il braccialetto elettronico è diventato l’icona di una giustizia che preferisce controllare piuttosto che fermare.

Questi non sono casi isolati. Sono il sintomo di una società che tollera l’intollerabile, che chiude gli occhi davanti alla violenza finché non esplode. 

  Le mura domestiche, che dovrebbero essere un rifugio, si trasformano troppo spesso in teatri di abusi. Ma il problema non è solo culturale: è istituzionale. La legge, con le sue timidezze, permette a questi individui di continuare a infliggere dolore, anche quando sembrano lontani.

La realtà è che siamo prigionieri di un sistema che preferisce non esporsi. Le istituzioni si vantano di “progressi” che sono solo palliativi. I braccialetti elettronici non fermano la violenza; la sorveglianza non restituisce sicurezza alle vittime. Serve un cambiamento radicale, deciso, senza paura di infrangere le convenzioni che proteggono più i carnefici che le vittime.

O si interviene con la forza necessaria, o si accetta che la giustizia resti un’illusione. I numeri non possono mascherare il fallimento di un sistema incapace di difendere i più deboli. Oristano è solo un simbolo: una battaglia tra chi vuole proteggere e chi si accontenta di gestire. E in questa battaglia, arrendersi non è un’opzione. La società non può permettersi di essere complice del silenzio.





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