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Michael Jordan, più grande del basket stesso – Ultimo Uomo

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Di seguito trovate un estratto di “I campioni che hanno fatto la storia della NBA”, il libro di Dario Vismara che esce oggi, edito da Giunti Editore, e ripercorre la storia della pallacanestro NBA attraverso i suoi 101 giocatori più rappresentativi. Se volete acquistare il libro potete farlo cliccando qui.

Michael Jordan è il più grande giocatore di pallacanestro che sia mai esistito per motivi che hanno poco a che fare con la pallacanestro. So che sembra un controsenso, ma non c’è altro modo di descriverlo: si farebbe un torto alla sua eredità se limitassimo il suo impatto e la sua importanza solamente a ciò che ha fatto all’interno del rettangolo di gioco, perché è stato — e continua a essere — molto più di così.

Jordan ha trasceso i limiti del basket per entrare nell’immaginario collettivo globale, diventando il sinonimo dell’eccellenza: come ha detto Barack Obama conferendogli la Presidential Medal of Freedom nel 2016, «C’è un motivo quando qualcuno viene chiamato “il Michael Jordan di qualcosa” […], perché tutti sanno immediatamente di chi stai parlando. […] È la definizione di qualcuno così bravo a fare qualcosa che chiunque ne riconosce la grandezza».

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All’apice della sua carriera, Jordan era l’uomo più famoso del mondo intero, e la cosa in parte vale ancora oggi nonostante lui si faccia vedere pochissimo in pubblico: di quanti altri esseri umani del presente o del passato puoi essere ragionevolmente certo che parlando con una persona a caso in Venezuela, in Islanda o in Patagonia sappiano chi è Michael Jordan?

Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il basket, e la carriera di Jordan con il passare del tempo assomiglia più a un romanzo che non a una lista di eventi. Nel corso dei suoi 15 anni in NBA ha accumulato più momenti iconici di qualsiasi altro giocatore, per non parlare dei trofei individuali e di squadra, negando a tanti altri protagonisti di questo libro la gioia di vincere un anello instaurando una dittatura tecnica e mentale sugli anni Novanta. Ci è riuscito completando non una ma ben due volte il “three-peat”, cioè vincere tre titoli in fila come non accadeva dai Celtics di Russell, infilandoci in mezzo un chiacchieratissimo ritiro per giocare a baseball dopo l’omicidio del padre.

Questo però è un libro di pallacanestro, ed è nella pallacanestro che Jordan ha fatto le sue fortune: se fosse stato scarso, o non così superiore rispetto a tutti gli altri della sua epoca, le sue scarpe non avrebbero venduto così tanto, le sue videocassette non avrebbero avuto quell’impatto nel far arrivare il suo volto nelle case di tutto il mondo, le sue gesta non avrebbero una rilevanza tale da rendere la serie televisiva su di lui e sui suoi Chicago Bulls l’argomento più chiacchierato su Internet mentre il pianeta intero era bloccato a casa durante la pandemia.

Ora è scontato parlare di Jordan con la riverenza che si deve al più grande di tutti i tempi, ma già mentre era in campo si aveva la netta sensazione che uno così non sarebbe passato mai più, facendolo diventare più vicino a una divinità, o almeno un supereroe, che a un essere umano come gli altri. Il concetto di “aura”, che spesso è usato a sproposito, si adatta a Jordan come nessun altro: è difficile descrivere la sensazione di trovarsi nella sua stessa stanza, e chi ha avuto la fortuna di provarlo sulla propria pelle (come è capitato al sottoscritto) non se lo dimenticherà per il resto dei suoi giorni. Staccargli gli occhi di dosso era impossibile, facendo scomparire chiunque altro fosse vicino a lui. E stiamo parlando in un Jordan ultra-cinquantenne, figuriamoci quando era al suo picco fisico e carismatico.

Jordan era semplicemente perfetto in ogni cosa che faceva, o almeno ti faceva pensare che quello che faceva lui fosse perfetto solo perché lo faceva lui, e quindi imitarlo era la cosa da fare. Il grande inganno di Michael Jordan, però, è stato farci credere che essere “like Mike”, come si cantava in uno dei suoi celeberrimi spot pubblicitari, fosse possibile. Come nel caso dell’eccellenza, essere come Michael Jordan è un ideale a cui tendere, non un obiettivo davvero realizzabile: questo non ha impedito, a noi e a tanti altri giocatori che sono venuti dopo di lui, di provarci e riprovarci – replicando i suoi tiri iconici, la sua lingua fuori mentre saltava, il polsino tergisudore sul braccio sinistro o comprando le sue scarpe. Tutto, pur di avere l’illusione di essere almeno per un momento come Michael Jordan.

Dei 101 giocatori che compongono questo volume, ce n’è uno che è diverso da tutti gli altri: lo è sempre stato, e sempre lo sarà. Perché lui è Michael Jordan e tutti gli altri no.





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