mancata erogazione dopo violazione degli obblighi tributari

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Nel presente documento viene esaminato il caso in cui, nei confronti di un dipendente pubblico, l’INPS sospenda l’erogazione dell’anticipo della NASPI (indennità di disoccupazione) a motivo del fatto che il medesimo, alla data in cui chiede l’anticipo, non ha ancora provveduto al pagamento di cartelle di pagamento emesse dall’Agenzia delle Entrate.

La natura pacificamente “assistenziale” della NASPI dovrebbe indurre il legislatore a prevedere che l’anticipo della medesima venga dichiarato come impignorabile fin quando il disoccupato – il quale nel frattempo abbia aperto, proprio su indicazione della stessa INPS, la partita IVA, al fine di intraprendere un’attività di lavoro autonomo – non tragga da tale attività i primi consistenti guadagni.

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Fatta questa doverosa premessa, la questione è quella di vedere se la sospensione, da parte di INPS, dell’erogazione dell’anticipo NASPI, possa essere considerata legittima anche nel caso in cui l’Agenzia Entrate riscossione abbia omesso, entro 60 gg. dalla notifica della cartella di pagamento (art. 50 comma 1 DPR 602/1973), di porre in essere gli atti esecutivi (pignoramento) ed abbia invece, in sostituzione di questi ultimi, disposto a carico del disoccupato il fermo amministrativo (art. 86 dello stesso DPR).

Altra questione, poi, è vedere se al provvedimento di fermo amministrativo possa essere riconosciuta efficacia interruttiva della prescrizione della pretesa tributaria, nonostante che gli atti esecutivi non siano mai stati posti in essere.

Premessa: la natura assistenziale della naspi

L’art. 38 della Costituzione stabilisce che i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita nel caso, tra l’altro, di “disoccupazione involontaria”.

La NASPI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, di seguito “NASPI”) è una indennità mensile di disoccupazione, istituita dal D.lgs. n. 22 del 04.03.2015, che viene erogata su domanda dell’interessato.

Ai sensi dell’art. 7 comma 2 del D.lgs., “con il decreto legislativo di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183, sono introdotte ulteriori misure volte a condizionare la fruizione della NASpI alla ricerca attiva di un’occupazione e al reinserimento nel tessuto produttivo”. Inoltre, l’art. 8 prevede che “il lavoratore avente diritto alla corresponsione della NASpI può richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio”.

La richiesta di erogazione del saldo della NASPI in un’unica soluzione è finalizzata al reinserimento nel mondo del lavoro, costituendo essa lo strumento mediante cui il percettore può contare su una liquidità tale da permettergli di affrontare le inevitabili spese inziali (ivi comprese proprio quelle di natura fiscale) che si rende necessario sostenere al fine di poter conseguire dalla nuova attività lavorativa i primi guadagni. La suddetta richiesta denota un comportamento caratterizzato dalla volontà della persona di reimmettersi nel circuito lavorativo al fine di assicurarsi i necessari mezzi di sussistenza, laddove tuttavia tale reinserimento richiede fisiologicamente, trattandosi di attività libero – professionale (apertura di partita IVA), un certo lasso di tempo, a differenza di quel che accadrebbe nel caso in cui la persona venisse inquadrata nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente. Prova ne è il fatto che, ai sensi dell’art. 8 comma 4 del D.lgs., “il lavoratore che instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della NASpI è tenuto a restituire per intero l’anticipazione ottenuta”.

Il legislatore, pertanto, per poter ottemperare seriamente (l’avverbio è d’obbligo!) alla norma contenuta nell’art. 38 Cost., che qualifica l’indennità di disoccupazione involontaria come strumento il quale deve garantire al disoccupato di poter provvedere alle proprie “esigenze di vita”, dovrebbe prevedere l’impignorabilità del credito NASPI fino al momento in cui il soggetto, che proprio su richiesta della stessa INPS ha aperto la partita IVA al fine di poter reimmettersi nel mondo del lavoro non più da dipendente ma da lavoratore autonomo, non abbia tratto dalla nuova attività guadagni tali da potergli consentire di adempiere all’obbligazione tributaria con modalità (rateizzazione) le quali al tempo stesso gli consentano di poter provvedere economicamente alle proprie esigenze di sostentamento.

Tale impignorabilità, oltre a rappresentare il canale più efficace per garantire la piena attuazione dell’art. 38 Cost., sarebbe anche uno strumento mediante cui, al disoccupato il quale voglia intraprendere un’attività lavorativa autonoma, verrebbe riservato un trattamento diverso rispetto a quello che lo stesso legislatore prevede (art. 8 comma 4 D.lgs. 22/2015) per chi riesca a trovare un nuovo lavoro da dipendente, caso, quest’ultimo, nel quale il percettore di NASPI è tenuto a restituirla per intero. In questo modo non verrebbe violato l’art. 3 Cost., per effetto del quale non si può prevedere la medesima disciplina per due fattispecie che sono oggettivamente diverse: se, nel caso del nuovo lavoro da dipendente, la NASPI deve essere restituita in toto, nel caso invece in cui il nuovo lavoro sia autonomo, la medesima dovrebbe costituire un bene impignorabile fin quando lo stesso percettore non abbia tratto da tale lavoro i primi “utili”.

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2) rapporto tra art. 48 bis dpr 602/73 (pignoramento presso terzi) ed art. 50 comma 1 dello stesso dpr (atti espropriativi da porre in essere, a pena di decadenza, entro 60 gg. dalla notifica della cartella di pagamento)

L’art. 50 comma 1 del DPR 602/73 (“Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito”, di seguito “DPR”) stabilisce che “il concessionario procede ad espropriazione forzata quando è inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, salve le disposizioni relative alla dilazione ed alla sospensione del pagamento”.

L’art. 48 bis del DPR impone alle PPAA – e quindi anche ad INPS – di verificare, prima di effettuare un   pagamento di importo superiore a 5mila euro, se il beneficiario sia inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento, e, in caso affermativo, di segnalare la circostanza ad Agenzia delle entrate-Riscossione, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo.

Il meccanismo previsto dall’art. 48 bis sembrerebbe doversi innescare ogni qual volta che una PA (in tal caso INPS) si ritrovi a dover corrispondere al contribuente inadempiente una determinata somma, indipendentemente dal fatto che l’Agenzia Riscossione, a quella data, abbia o meno attivato la procedura di esproprio prevista dall’art. 50 DPR. La norma dice “ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione”, e non dice “ai fini della continuità dell’esercizio”: quindi sembrerebbe che la suddetta segnalazione sia necessaria a consentire “l’avvio”, e non la prosecuzione, della medesima attività. Il che equivarrebbe a dire: in assenza di tale segnalazione, l’attività di riscossione è destinata a non poter essere mai neanche avviata.

Il D.lgs. 22/2015 non prevede espressamente una norma la quale obblighi INPS a non erogare al disoccupato il saldo NASPI ed a versare le corrispondenti direttamente all’Agenzia delle Entrate a saldo delle cartelle dal medesimo non pagate. L’unica norma in cui si fa riferimento agli aspetti fiscali è quella contenuta nell’art. 9, che, nel disciplinare la compatibilità della NASPI con il rapporto di lavoro subordinato, stabilisce la decadenza dal diritto al beneficio qualora il reddito annuo derivante da tale rapporto “sia superiore al reddito minimo escluso da imposizione fiscale”. Se veramente la segnalazione di cui all’art. 48 bis DPR dovesse essere fatta anche per le somme che INPS deve erogare a titolo di NASPI, allora il D.lgs. citato dovrebbe espressamente “far salva” la norma contenuta nello stesso art. 48 bis, cosa che invece non è.

Ad ogni modo, l’art. 48 bis del DPR 602/73 precisa che le modalità di attuazione dell’obbligo di segnalazione sono stabilite con Regolamento Governativo, e quest’ultimo è costituito dal Decreto n. 40 del 18.01.2008, il quale prevede la seguente procedura:

1) INPS, prima di eseguire il pagamento, interpella Agenzia Riscossione

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2) Questa controlla se il soggetto è inadempiente all’obbligo della cartella, e, entro 5 gg., lo comunica ad INPS: se trascorre questo termine senza che Agenzia Riscossione abbia comunicato nulla ad INPS, quest’ultimo deve procedere al pagamento in favore del beneficiario

3) se, invece, Agenzia Riscossione riscontra che il soggetto è inadempiente, a quel punto tale comunicazione costituisce a tutti gli effetti “segnalazione” da parte di INPS, e la conseguenza è che la stessa Agenzia preannuncia la propria intenzione di procedere alla notifica dell’ordine di versamento di cui all’art. 72-bis DPR, il quale, nel disciplinare il “pignoramento presso terzi”, dispone che l’atto di pignoramento presso terzi (ossia INPS) può contenere, anziché l’atto di citazione previsto dall’art. 543 comma 2 n. 4) c.p.c. (ossia l’invito al terzo a comunicare al creditore procedente la dichiarazione di essere tenuto al pagamento di somme in favore del debitore), l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario.

In pratica, per effetto dell’art. 48 bis DPR e del relativo Decreto attuativo, Agenzia Riscossione, al fine di ottenere il pagamento dal contribuente debitore, anziché porre in essere la procedura di pignoramento prevista dall’art. 50 DPR (da attivarsi, a pena di decadenza, entro 60 gg. dalla notifica della cartella di pagamento), pone in essere la procedura di pignoramento presso terzi, che, sulla base dell’art. 48 bis, sembrerebbe poter essere avviata “senza alcun termine di decadenza”, ossia ogni qual volta il contribuente debba percepire delle somme da altre PPAA (vedi INPS).

Tutto ciò premesso, la questione da esaminare è la seguente: prevale l’art. 48 bis DPR (pignoramento presso terzi senza alcun termine di decadenza) oppure l’art. 50 comma 1 DPR (pignoramento diretto da eseguirsi, a pena di decadenza, entro 60 gg. dalla notifica della cartella di pagamento)?

La domanda, in sostanza, è la seguente: la procedura di cui all’art. 48 bis DPR opera anche se l’Agenzia Entrate Riscossione, alla data in cui la medesima viene attivata, non abbia mai posto in essere la procedura di esproprio che è disciplinata, a pena di decadenza, dall’art. 50 dello stesso DPR?

Se il pignoramento presso un altro Ente (INPS) fosse lo strumento per eludere sistematicamente il termine decadenziale previsto per l’esercizio delle ragioni di credito da parte dell’Ente che è “titolare” di quest’ultimo (Agenzia Riscossione), la norma che stabilisce il suddetto termine (in tal caso, l’art. 50 DPR) sarebbe destinata ad essere perennemente violata, e quindi l’Ente titolare si troverebbe nella posizione di poter esigere il credito anche dopo essere incorso nella decadenza.

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La fissazione di un termine decadenziale entro cui l’Ente pubblico debba porre in essere gli atti necessari alla riscossione del credito, deriva direttamente dal principio costituzionale del buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., che stabilisce, tra gli obblighi della PA, quello della “efficienza”, intesa quale condotta essenziale al perseguimento dei fini istituzionali dell’Ente stesso (in tal caso, la riscossione dei tributi).

Inoltre, l’art. 10 ter della Legge 212/2000 (Statuto del Contribuente) stabilisce che “il procedimento tributario bilancia la protezione dell’interesse erariale alla percezione del tributo con la tutela dei diritti fondamentali del contribuente, nel rispetto del principio di proporzionalita’. In conformita’ al principio di proporzionalita’, l’azione amministrativa deve essere necessaria per l’attuazione del tributo, non eccedente rispetto ai fini perseguiti e non limitare i diritti dei contribuenti oltre quanto strettamente necessario al raggiungimento del proprio obiettivo”. Nei rapporti tra privati, la decadenza dall’esercitabilità di un diritto di credito trova la sua ratio non soltanto nell’esigenza di responsabilizzare il titolare del medesimo in merito a quello che è il suo effettivo e concreto “interesse” alla tutela del credito stesso, ma anche nella necessità di evitare che la controparte, ossia il soggetto verso cui tale diritto è esercitabile, rimanga perennemente esposto alla pretesa creditoria e che pertanto si trovi impossibilitato sine die ad investire le proprie risorse in operazioni che per il medesimo possono essere foriere di vantaggi patrimoniali. Ebbene, quando del diritto di credito è titolare un Ente pubblico (anziché un privato), l’ “interesse” alla tutela del credito assume la dimensione di un vero e proprio “obbligo”, poiché dell’adempimento di quest’ultimo andrà poi a beneficiare la collettività, delle cui esigenze l’Ente stesso è portatore. Ma, a tale obbligo, corrisponde, anche in tal caso, il diritto del privato (contribuente) a non rimanere nella posizione di “debitore” in modo indefinito nel tempo, avendo egli il diritto di veder, appunto, “decaduta” la pretesa tributaria in modo da poter poi impiegare le proprie risorse economiche in altri ambiti, piuttosto che finalizzarle al soddisfacimento di un credito che l’Ente pubblico ha dimostrato (vedi maturazione del termine decadenziale stabilito per gli atti esecutivi) di non avere interesse a tutelare. L’art. 10 ter Statuto, quando prevede che “l’azione amministrativa deve essere necessaria per l’attuazione del tributo”, esprime la necessità che l’Ente titolare del credito compia, appunto, delle “azioni” finalizzate all’attuazione del tributo, “azioni” che, in quanto tali, implicano il “compimento diretto” delle procedure previste dalla legge al fine di riscuotere il credito, e non il fatto che la riscossione debba dipendere da una “segnalazione” fatta da altri Enti (INPS) soltanto perché questi ultimi, in modo del tutto causale, si trovano, in un qualsiasi momento e quindi anche dopo che sia decorso il termine di decadenza previsto per la riscossione stessa, a dover pagare delle somme al contribuente inadempiente (NASPI).

Per espressa previsione dell’art. 17, le disposizioni dello Statuto – e quindi anche la norma contenuta nell’art. 10 ter – si applicano anche nei confronti dei soggetti che esercitano attività di riscossione, e, ai sensi dell’art. 1, le medesime disposizioni sono dettate “in attuazione delle norme della Costituzione” e “costituiscono princìpi generali dell’ordinamento tributario”.

Di conseguenza, il pignoramento presso terzi (art. 48 bis DPR 602/73) non può costituire il mezzo per eludere sistematicamente il termine di decadenza degli atti tributari esecutivi previsto dall’art. 50 comma 1 dello stesso DPR, in quanto ciò significherebbe violare sia l’art. 97 della Costituzione (principio della “efficienza” dell’azione amministrativa) sia l’art. 10 ter dello Statuto (principio di “proporzionalità), il quale costituisce a sua volta norma attuativa della Costituzione e principio generale dell’ordinamento tributario.

Al riguardo, non è casuale che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 280 del 15.07.2005, dichiarò l’illegittimità dell’art. 25 del DPR 602/73 nella parte in cui non prevedeva un termine, a pena di decadenza, entro il quale il concessionario dovesse notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi dell’art. 36-bis D.P.R. n. 600/73.

3) art. 50 comma 2 del dpr 602/73: illegittimita’ costituzionale per violazione degli artt. 3 e 97 cost.

L’art. 50 comma 1 stabilisce che “il concessionario procede ad espropriazione forzata quando e’ inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, salve le disposizioni relative alla dilazione ed alla sospensione del pagamento”. Il comma 2 prevede che “se l’espropriazione non e’ iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica, da effettuarsi con le modalita’ previste dall’articolo 26, di un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni”.

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Pertanto, in base al comma 2, il mancato avvio del procedimento espropriativo entro il termine di 60 gg. dalla notifica della cartella di pagamento, non determina la definitiva decadenza della pretesa tributaria, essendo comunque previsto che, anche quando sia decorso 1 anno dalla notifica della cartella, l’Amministrazione Finanziaria (di seguito “AF”) possa comunque avviare il suddetto procedimento, con l’obbligo tuttavia di notificare preventivamente al contribuente una diffida ad adempiere.

Ci si chiede se tale norma sia legittima.

  1. A) Illegittimità per violazione del principio costituzionale del buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.)

E’ doveroso approfondire il rapporto che intercorre tra l’Agenzia delle Entrate (Ente impositore) e l’Agenzia Riscossione.

Agenzia delle entrate-Riscossione è un Ente pubblico economico istituito ai sensi dell’articolo 1 del Decreto legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito con modificazioni dalla Legge 1 dicembre 2016 n. 225.

L’art. 1 comma 4 prevede che “il direttore dell’ente è il direttore dell’Agenzia delle entrate” e che il comitato di gestione è composto, oltre che dal direttore, anche da due dirigenti della stessa Agenzia delle entrate. Inoltre, ai sensi del comma 5 quater dello stesso articolo, “al fine di incrementare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità nello svolgimento sinergico delle rispettive funzioni istituzionali, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia delle entrate-Riscossione possono stipulare, senza nuovi o maggiori oneri, apposite convenzioni o protocolli di intesa che prevedono anche forme di assegnazione temporanea, comunque denominate, di personale da un’agenzia all’altra”. Quindi, non soltanto l’organo di vertice dell’Agenzia riscossione coincide con quello dell’Agenzia delle Entrate, ma, al fine di assicurare l’efficacia (ossia il buon fine, vale da dire la effettiva riscossione) di tutta la procedura di accertamento dei debiti tributari, è prevista la conclusione di accordi di collaborazione tra le due Agenzie, cosa, del resto, anche abbastanza “normale” dal momento che, ai sensi dell’art. 3, l’Agenzia Riscossione non è un soggetto giuridico distinto dall’Agenzia delle Entrate, ma è un Ente “strumentale” rispetto a quest’ultima: essa infatti viene definita come Ente “sottoposto all’indirizzo operativo e al controllo della stessa Agenzia delle entrate, che ne monitora costantemente l’attività”. Alla luce di quanto sopra, pertanto, l’Agenzia Riscossione è, pacificamente, qualificabile come “articolazione interna” dell’Agenzia delle Entrate.

Ebbene, l’Agenzia delle Entrate, se è chiamata ad esercitare un monitoraggio costante sull’attività dell’Agenzia Riscossione finalizzata all’incasso del credito tributario, il quale è stato preventivamente accertato dalla stessa Agenzia Entrate, dovrà, proprio per questa ragione, sollecitare l’Agenzia Riscossione a porre in essere gli atti della procedura esecutiva entro i termini previsti (ossia 60 gg. dalla notifica della cartella di pagamento), in quanto, in assenza di tale sollecito, il monitoraggio sopra citato non ha alcun senso: tant’è che la norma parla espressamente di “controllo” dell’Agenzia delle Entrate, e ciò implica l’obbligo, da parte di quest’ultima, di verificare in maniera sistematica e scrupolosa che la riscossione demandata all’Ente controllato (Agenzia Riscossione) sia “effettiva”, ossia che quest’ultimo faccia tutto ciò che è previsto dalla legge, ed entro il termine di decadenza da questa stabilito, al fine di incassare le somme dovute e di garantire quindi l’efficacia della pregressa attività di accertamento, efficacia la quale costituisce per la PA, segnatamente per l’AF, un obbligo di rilevanza costituzionale (art. 97 Cost.).

Da segnalare, inoltre, che, a norma dell’art. 3 (“potenziamento della riscossione”), “a decorrere dal 1° gennaio 2017, l’Agenzia delle entrate può utilizzare le banche dati e le informazioni alle quali è autorizzata ad accedere sulla base di specifiche disposizioni di legge, anche ai fini dell’esercizio delle funzioni relative alla riscossione”, e che l’Agenzia Riscossione è autorizzata ad accedere e utilizzare tali dati “per i propri compiti di istituto”. Di conseguenza, il mancato avvio, da parte dell’Agenzia Riscossione, della procedura di esproprio, durante il tempo per il quale il percettore lavorava (magari, addirittura, in qualità di dipendente a tempo indeterminato di un Ente pubblico), configura una violazione dell’obbligo generale di garantire il “buon andamento” dell’attività amministrativa, violazione che assume una rilevanza ancor più grave sia perché le Agenzie non hanno utilizzato uno strumento – le banche dati – che il legislatore ha loro fornito al fine di agevolarle nel perseguimento dei propri fini istituzionali, sia perché le stesse non hanno agito per la riscossione del credito in un momento in cui il contribuente (oggi percettore di NASPI), dato il suo inquadramento nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato (per giunta, pubblico!), era nelle condizioni finanziarie ideali per poter provvedere al pagamento, sia pur indirettamente attraverso il pignoramento di 1/5 dello stipendio. 

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Di conseguenza, la pretesa dell’AF di bloccare l’erogazione del saldo NASPI da parte di INPS, è del tutto illegittima in quanto in contrasto con il principio costituzionale del buon andamento.

Illegittimità per violazione dell’art. 3 Costituzione: disparità di trattamento rispetto ad altre fattispecie per le quali è previsto il termine decadenziale della degli atti tributari 

Il DPR 602/73, quando prevede un termine di decadenza entro cui il contribuente debba far valere determinati diritti, non prevede anche che tale termine possa essere comunque superato, a differenza di quanto invece previsto dall’art. 50 comma 2 del medesimo DPR, in base al quale l’espropriazione può essere iniziata anche dopo che sia decorso 1 anno dalla notifica della cartella. E’ il caso del diritto al rimborso delle ritenute dirette (art. 37 comma 1) e dei versamento diretti (art. 38), entrambi esercitabili, appunto a pena di decadenza, entro 48 mesi.

Si consideri poi che anche l’attività di accertamento tributario è soggetta a dei termini, in quanto, ai sensi dell’art. 7, “non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini di cui all’articolo 12, comma 5”. Tali termini (30 gg.) sono quelli entro, e non oltre, i quali gli operatori civili o militari dell’AF possono rimanere negli uffici del contribuente. Pertanto, se il mancato rispetto del termine previsto per l’attività di accertamento è ostativo alla dimostrazione della fondatezza della pretesa tributaria, il mancato rispetto del termine previsto per l’inizio della procedura di esproprio (60 gg. dalla notifica della cartella di pagamento) dovrà, necessariamente, considerarsi ostativo alla reiterazione della richiesta di riscossione del debito tributario.

Ai sensi dell’art. 11 comma 6 Statuto, “la presentazione della istanza di interpello non incide … sulla decorrenza dei termini di decadenza”.

Dal fatto che l’istanza di interpello non incida sul termine di decadenza della pretesa tributaria, cosa si ricava? Che l’interpello comporta l’attivazione di un subprocedimento all’interno di una procedura di accertamento che è già stata avviata dall’AF. Ebbene, proprio l’attivazione di questo subprocedimento dovrebbe indurre a prevedere una sospensione del termine decadenziale entro il quale la suddetta procedura debba essere conclusa, in quanto mediante il medesimo si instaura tra le parti un confronto volto all’individuazione di quale sia l’esatta portata da attribuire alla norma tributaria sulla quale la pretesa è stata fondata.

Invece lo Statuto non prevede alcuna sospensione: esso, infatti, stabilisce che l’istanza di interpello non comporta alcuna modifica del termine di decadenza previsto nei confronti dell’AF, e quindi può accadere che il termine decadenziale entro cui la cartella deve essere emessa venga a scadere quando l’AF deve ancora rispondere all’istanza di interpello.

Ebbene, tali termini, se non vengono sospesi né interrotti neanche dall’istanza con la quale il contribuente chiede all’AF una risposta in merito alla corretta interpretazione delle norme tributarie, non potranno, a maggior ragione, essere sospesi od interrotti nemmeno dalla tardività (vedi superamento del termine dei 60 gg. ex art. 50 comma 2 DPR) con la quale la stessa AF abbia posto in essere gli atti della procedura esecutiva. Di conseguenza, è manifestamente illegittima, ex art. 3 della Costituzione, la norma contenuta nell’art. 50 comma 2 DPR, la quale prevede che il termine decadenziale dei 60 gg. previsto per l’inizio dell’esecuzione possa essere differito in maniera indefinita nel tempo (“se l’espropriazione non e’ iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica”): è illegittima perché di fatto stabilisce, a favore dell’AF, una proroga sine die del suddetto termine anche se quest’ultima non ha ottemperato all’obbligo, previsto dalla stessa norma, di porre in essere gli atti esecutivi, quando invece il termine decadenziale, qualsiasi esso sia, non può essere né sospeso né interrotto neanche da un’istanza del privato e quindi nemmeno nei casi di “assenza di colpa” dell’AF medesima.

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A ciò si aggiunga che gli unici casi di deroga al termine decadenziale dei 60 gg. stabilito dall’art. 50 comma 1 sono quelli in cui sia stato concesso al contribuente il beneficio del pagamento rateale (dilazione) e/o la stessa AF abbia accolto la richiesta di sospensione del pagamento avanzata dal contribuente. Pertanto, uno slittamento dei termini previsti per l’avvio della procedura di esproprio è possibile solo quando il contribuente abbia manifestato, mediante l’accettazione del piano di rateazione, la volontà di pagare la cartella e quindi di evitare la suddetta procedura, oppure qualora l’attività di riscossione sia stata sospesa per i motivi indicati dal DPR 602/73, ossia: quando il contribuente abbia presentato un’istanza di apertura di procedura amichevole ai sensi della direttiva (UE) 2017/1852 del Consiglio del 10 ottobre 2017 (art. 15), oppure quando lo stesso abbia accettato la proposta di compensazione tra il credito d’imposta ed il debito iscritto a ruolo (art. 28 ter) oppure quando, a seguito del ricorso da egli proposto contro il ruolo, la riscossione sia stata sospesa dall’Ufficio delle Entrate (art. 39).

Inoltre, ai sensi dell’art. 19 comma 1 bis DPR 602/73, i termini di decadenza dall’azione di riscossione sono sospesi solo per il periodo compreso tra la data in cui sia stata presentata una richiesta di dilazione fino alla data dell’eventuale rigetto della richiesta, nonché quando il contribuente sia decaduto dal relativo beneficio.

Quindi, uno slittamento in avanti del termine per l’avvio della procedura espropriativa è previsto solo nelle ipotesi in cui il contribuente abbia manifestato la volontà di pagare, e non anche quando l’AF non si sia attivata entro il termine (60 gg.) a tal fine previsto.

Di conseguenza, l’art. 50 comma 2 del DPR 602/73, per effetto del quale l’espropriazione può essere avviata anche dopo che sia decorso 1 anno dalla notifica della cartella esattoriale (e quindi anche dopo il compimento del termine dei 60 gg. dalla notifica previsto a pena di decadenza dal comma 1 della stessa norma), deve ritenersi costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

Il fermo amministrativo: non e’ atto interruttivo della prescrizione della pretesa tributaria

L’art. 86 del DPR 602/73 (di seguito “DPR”), al comma 1, così dispone: “decorso inutilmente il termine di cui all’articolo 50, comma 1, il concessionario puo’ disporre il fermo dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in pubblici registri, dandone notizia alla direzione regionale delle entrate ed alla regione di residenza”.

Il comma 2 precisa che l’Agenzia Riscossione invia preventivamente “l’avviso che, in mancanza del pagamento delle somme dovute entro il termine di trenta giorni, sara’ eseguito il fermo, senza necessita’ di ulteriore comunicazione, mediante iscrizione del provvedimento che lo dispone nei registri mobiliari, salvo che il debitore o i coobbligati, nel predetto termine, dimostrino all’agente della riscossione che il bene mobile è strumentale all’attivita’ di impresa o della professione”.

Ai sensi del comma 4, “con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, sono stabiliti le modalita’, i termini e le procedure per l’attuazione di quanto previsto nel presente articolo”.

L’art. 91 bis del DPR, nel disciplinare il fermo dei veicoli a motore, stabilisce quanto segue: “qualora in sede di riscossione coattiva di crediti iscritti a ruolo non sia possibile, per mancato reperimento del bene, eseguire il pignoramento dei veicoli a motore e degli autoscafi di proprieta’ del contribuente iscritti nei pubblici registri, la direzione regionale delle entrate ne dispone il fermo”. L’AF può disporre il fermo del veicolo soltanto se non sia stato possibile eseguire il pignoramento del medesimo per il fatto che quest’ultimo non si riesce a risulta rintracciabile presso il debitore: il veicolo, siccome non è pignorabile, viene “fermato”. Anche in questo caso, le modalità attuative sono affidate ad un decreto del Ministro delle finanze.

Tale Decreto è il n. 503 del 07.09.1998 (Regolamento recante norme in materia di fermo amministrativo di veicoli a motore ed autoscafi, ai sensi dell’articolo 91-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1972, n. 602, introdotto con l’articolo 5, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30, di seguito “Regolamento”), pubblicato in G.U. Serie Generale n.26 del 02-02-1999. L’art. 6 comma 1 prevede che “in caso di integrale pagamento delle somme dovute e delle spese di notifica di cui all’articolo 4, comma 1, il concessionario entro venti giorni dal pagamento ne dà comunicazione alla competente direzione regionale delle entrate, che nei successivi venti giorni emette un provvedimento di revoca del fermo inviandolo al contribuente”. Il fermo viene revocato, e conseguentemente cancellato, se il debitore paga l’intera somma dovuta. Quindi, in caso di mancato pagamento del debito tributario, il fermo non viene revocato, ossia rimane operante. Ma il punto è questo: se da un lato il fermo continua a produrre effetti, dall’altro lato il contribuente potrebbe anche continuare a non pagare, e quindi il fermo non è equiparabile al pignoramento, il quale invece è l’unico e solo strumento mediante la pretesa del creditore viene concretamente soddisfatta (prelievo forzoso del bene da parte dell’ufficiale giudiziario, vendita coattiva del bene, ed erogazione del ricavato in favore dell’AF). Non a caso, l’art. 3 del Regolamento così dispone: “la richiesta dell’emanazione del provvedimento di fermo non esonera il concessionario dall’obbligo di porre in essere le ulteriori azioni esecutive prescritte dalle norme vigenti”. Ciò dimostra che il fermo è soltanto una misura sanzionatoria consistente nel limitare la libertà di movimento del soggetto debitore a causa del suo inadempimento agli obblighi tributari, ma non costituisce lo strumento mediante cui l’AF riscuote materialmente la somma, tant’è vero che esso non esenta l’AF dal porre in essere le azioni esecutive previste dalle norme, ossia il pignoramento di altri beni diversi dal veicolo sottoposto al fermo. E d’altra parte, se così non fosse, e cioè se parallelamente al fermo non vi fosse l’obbligo per l’AF di attivare la procedura di esproprio di altri beni del debitore, quest’ultimo, per il quale evidentemente il fermo del veicolo non costituisce un problema “esistenziale”, si ritroverebbe perennemente legittimato a non pagare il debito.

La conclusione è quindi la seguente: se il fermo non esonera l’AF dal pignorare altri beni del debitore (vedi, p. es., 1/5 dello stipendio quando questi lavorava), ciò vuol dire che esso non interrompe il termine di prescrizione della pretesa tributaria, altrimenti la norma prevedrebbe che il medesimo “sospende” il termine entro cui debbono essere compiute le ulteriori azioni esecutive. Pertanto, queste, se non vengono esercitate entro il termine di prescrizione decennale, sono da considerarsi prescritte nonostante il fermo.

La prescrizione della pretesa tributaria non puo’ essere interrotta dall’inps, in quanto quest’ultimo non e’ “titolare” della medesima (art. 2934 c.c.)

Ai sensi dell’art. 8 comma 3 Statuto, “le disposizioni tributarie non possono stabilire nè prorogare termini di prescrizione oltre il limite ordinario stabilito dal codice civile”. Il termine ordinario di prescrizione dei crediti, ai sensi dell’art. 2946 c.c., è decennale.

Ai sensi dell’art. 2934 c.c., “ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”. Il termine è decennale. L’onere di agire per la tutela di un diritto al fine di evitare che questo non possa essere più accertato, è, esclusivamente, del “titolare” dello stesso.

Allo stesso modo, l’art. 2943 c.c., quando parla di “interruzione della prescrizione”, attribuisce espressamente tale facoltà soltanto al “titolare” del diritto: è solo quest’ultimo, e non altri, il soggetto legittimato a porre in essere atti i quali dimostrino la ferma volontà di tutelare il proprio diritto e che pertanto abbiano, quale effetto, appunto quello di interrompere il termine di prescrizione.

Il meccanismo mediante cui l’INPS, che non è “titolare” del diritto di credito vantato dall’AF nei confronti del percettore della NASPI, sospende l’erogazione del saldo di quest’ultima al fine di poter versare le corrispondenti somme a favore della stessa AF, determina che la prescrizione venga interrotta da chi non è “titolare” del relativo diritto. Esso, di conseguenza, contrasta con il combinato disposto delle due norme sopra richiamate.

 In conclusione, l’art. 48 bis DPR 602/73 non può essere utilizzato quale strumento per eludere il combinato disposto degli artt. 2934 e 2943 c.c., per effetto del quale la prescrizione del diritto può essere interrotta solo dal soggetto che di tale diritto è il “titolare”, e non anche da soggetti terzi (ossia la PA tenuta al versamento di somme a favore del contribuente inadempiente, e cioè INPS).

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