Secondo il criminologo, i vari social media, in continua evoluzione, stanno diventando un retroterra, dove far emergere nuove forme di subcultura di matrice criminogena. Musacchio ha identificato una nuova forma di devianza: la “mafiosità virtuale”. Questo fenomeno, che mescola gli elementi della subcultura mafiosa tradizionale con la dinamicità dei social media, sta suscitando un dibattito tra gli esperti che non va assolutamente sottovalutato. In questa intervista tentiamo di comprendere meglio la questione.
Illegalità e proselitismo sono solo questi i pericoli dei social media?
Il pericolo tra i pericoli è, a mio giudizio, la “mafiosità virtuale” che si evidenzia soprattutto nelle subculture giovanili, dove l’attrazione per il fascino del “criminale” ha sempre avuto un ruolo propulsivo e imitativo. Questa tendenza criminogena si è diffusa in molti social media in modo silenzioso e all’interno settori specifici che, con il tempo e i mancati controlli, sono stati rapidamente amplificati dalla condivisione virale dei contenuti. Il comportamento criminale è appreso soprattutto attraverso l’interazione con altre persone in un processo di comunicazione digitale. Domina, in questo caso, la diffusione virtuale, ma assume sotto molti aspetti rilievo anche quella del gruppo. La parte fondamentale di questo processo di devianza criminale si realizza all’interno di gruppi di persone in stretto rapporto tra loro attraverso il mezzo di comunicazione digitale e la sua viralità.
La viralità quindi amplifica il fenomeno?
Assolutamente sì. La viralità di questo fenomeno criminale è continuamente alimentata da influencer e creator appositamente voluti dai mafiosi che hanno lo specifico compito di contribuire a diffondere la subcultura mafiosa attraverso video, meme e sfide virtuali, raggiungendo un pubblico sempre più ampio. Questo, ovviamente, contribuisce a rendere la “mafiosità virtuale” un fenomeno molto diseducativo, suscitando il dibattito pubblico e l’attenzione dei media. Tutto questo, sicuramente, fa gioco alle mafie e alla loro necessità di fare proselitismo in modo subdolo.
In che modo la subcultura mafiosa si manifesta sul social?
L’influenza della mafiosità è evidente anche nel linguaggio utilizzato, ad esempio, dai “creators” operanti su Tik-Tok. Parole come “spione”, “infame”, “famiglia”, “rispetto”, “onore” sono diventate parte del lessico comune, assumendo un nuovo significato quasi di normalità in un ambiente digitale. Ci sono poi i simboli tradizionalmente associati alla mafia, come la “rosa rossa”, la “piovra”, il “cappello Borsalino”, il “numero 13”, che sono stati rivisitati e riproposti in chiave moderna, diventando elementi di stile e identità per i giovani utenti. Gli atteggiamenti tipici della subcultura mafiosa, come la “esaltazione di un boss” (vedi i vari Riina, Cutolo, Schiavone), il “segno della pistola puntata”, la “ostentazione della ricchezza” (macchine e moto di lusso, mega-ville) il “saluto mafioso” (come ad esempio baciamano), sono stati reinterpretati e utilizzati di frequente nei video di Tik-Tok, contribuendo a creare un immaginario visivo distintivo da seguire per ottenere onore e rispetto. Gli utenti dei vari social media spesso s’identificano con diverse “famiglie mafiose” o “clan” virtuali, ispirati a gruppi mafiosi reali o immaginari. All’interno di queste “famiglie”, si sviluppano gerarchie e ruoli che riflettono le strutture tradizionali della criminalità organizzata. Gli utenti partecipano a riti di affiliazione virtuali, come la condivisione di contenuti specifici (es. tatuaggi, barba lunga, riti d’iniziazione), l’utilizzo di parole d’ordine e l’esecuzione di sfide a sfondo delinquenziale.
Qual è il reale impatto sui giovani?
L’impatto della “mafiosità virtuale” sui giovani utenti è un tema molto complesso e profondo, che richiede un’analisi pluridimensionale. Molti giovani vedono il fenomeno come un gioco, una forma d’intrattenimento e un modo per distinguersi dalla massa. Al contempo, il rischio è che il “mafiosizzarsi” dei social media contribuisca a diffondere un’immagine distorta e imitativa della criminalità organizzata, minimizzando persino i suoi reali effetti negativi. È importante monitorare e moderare l’esposizione dei giovani a contenuti inappropriati e violenti che potrebbero essere presenti all’interno delle varie piattaforme virtuali. Le nuove mafie, ad esempio, sfruttano anche la musica per trasmettere propri codici e propri messaggi criminali tra i più giovani. Tutte queste forme di manifestazione del pensiero incidono notevolmente sullo sviluppo di comportamenti spesso non consoni allo sviluppo “normale” di un soggetto debole.
Quali sono le forme di diffusione dei contenuti legati alla mafia?
Tik-Tok, ad esempio, è diventato una piattaforma di diffusione per video, canzoni, immagini che riproducono stereotipi e immaginari legati alla mafia, inclusi quelli riguardanti boss, clan, codici d’onore e vendette. I meme ispirati alla cultura mafiosa sono diventati virali, contribuendo a diffondere un immaginario stravagante e sardonico, ma non per questo meno influente. Le sfide virtuali, che spesso richiedono agli utenti di ricreare scene o situazioni legate alla mafia, possono contribuire a normalizzare e banalizzare il fenomeno, rendendolo più accettabile e meno inquietante. Questi contenuti, a mio parere, sono molto pericolosi soprattutto per le persone maggiormente influenzabili. La mitizzazione della mafia e dei mafiosi è il pericolo più grande cui i nostri giovani sono sottoposti sui social media e non solo.
I pericoli più immediati da scongiurare secondo lei quali sono?
Una delle principali critiche che deriva dalla “mafiosità virtuale” è che essa contribuisca allo spirito imitativo della criminalità organizzata, presentandola subdolamente come un mondo affascinante e allettante, soprattutto, per i più giovani. Un’altra critica riguarda anche la banalizzazione del fenomeno mafioso, che è ridotta a un gioco o a una moda, senza considerare le sue implicazioni reali e i gravi danni che può determinare. È importante ricordare che la criminalità organizzata ha conseguenze devastanti, non solo per le vittime dirette, ma anche per l’intera società civile, e che non è un gioco o un fenomeno da celebrare ma da condannare senza se e senza ma. La “mafiosità virtuale” potrebbe continuare a evolversi persino come forma d’intrattenimento, con nuovi contenuti, sfide e tendenze che si affacciano sulle varie piattaforme virtuali esistenti. Il fenomeno potrebbe alimentare l’inquietudine giovanile, contribuendo a diffondere un’immagine distorta della criminalità e ad aumentare la sua influenza negativa proprio tra i più giovani. In un video girato su Tik-Tok mesi fa, un maker chiedeva agli abitanti di Ottaviano chi fosse stato Raffaele Cutolo. La gran parte degli intervistati ha risposto: “Un gran signore”. Ciò che più mi ha stupito non è tanto questa risposta, ma i commenti al video di gente di ogni parte d’Italia che osannava il vecchio boss ormai morto. Più di trecentomila commenti positivi con pochissime critiche. È questo il virus della mafiosità che io reputo pericolosissimo. Ciò che va impedito più di ogni altra cosa è sicuramente il rischio che simili fatti emulino nei più giovani lo spirito imitativo.
Quali sono secondo lei i rimedi possibili?
La regolamentazione del fenomeno “mafiosità virtuale” pone sfide complesse, poiché si tratta di un fatto che si sviluppa in un ambiente digitale in perenne evoluzione. Il confine tra il gioco e l’esaltazione del crimine è molto labile. Le istituzioni devono trovare un equilibrio tra il diritto alla libertà di espressione e la necessità di prevenire la diffusione di contenuti pericolosi. L’educazione e la sensibilizzazione sono strumenti fondamentali per combattere l’imitazione della mafia e per promuovere la cultura della legalità tra i giovani. Il monitoraggio e l’analisi di queste nuove tendenze saranno cruciali per comprendere le implicazioni e per mitigare i rischi che potrebbero comportare per la società. La “mafiosità virtuale” rappresenta un fenomeno particolarmente complesso e multiforme che richiede un approccio attento e soprattutto multidisciplinare. È necessario comprendere le origini e le motivazioni di questa tendenza, analizzando i contenuti e gli utenti che ne sono coinvolti. L’educazione, la consapevolezza e il dialogo sono strumenti fondamentali per affrontare le sfide che questo fenomeno presenta e per promuovere quella cultura della legalità e del rispetto delle regole tanto anelata da uomini come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
Vincenzo Musacchio, criminologo, docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro ordinario dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni Ottanta. È tra i più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali. Esperto di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto europeo di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative in ambito europeo.
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