Ogni volta che si parla di crisi della sinistra lo si ricorda: la parte politica che ai tempi della Rivoluzione francese occupava il lato sinistro dell’assemblea ha perso il suo elettorato di riferimento. Non sa più rappresentare i poveri – ciò che, a seconda delle visioni, si è chiamato il popolo, gli ultimi, il Quarto stato, il proletariato, oggi di nuovo il popolo.
A leggere l’ultimo libro di Riccardo Staglianò, Hanno vinto i ricchi, sembra che la sinistra i poveri non riesca nemmeno a vederli. Qualcuno obietta che la classe operaia non esiste più, dissoltasi negli anni ’80 con la fine della grande industria. Poi c’è l’accusa di farsi scippare gli elettori. La sinistra liberal, ritenuta responsabile in America dell’elezione di Trump, è ormai la classe dei borghesi cosmopoliti e colti, preoccupati dei diritti civili più che dei diritti sociali, attenti alle desinenze delle parole invece che alla perdita di potere di acquisto dei salari. Sulla versione nostrana di questo «tipo» sociale (a cui, sia detto con franchezza, appartiene in toto chi scrive questo articolo) ha detto molto Virzì nella commedia Caterina va in città: quelli di sinistra vivono in case piene di libri e poster del Che, vanno alle manifestazioni per la pace e ai girotondi, ascoltano Nick Cave (la descrizione è datata agli anni duemila, ma basta aggiornarla).
La morale del film preannunciava l’avvento dei 5 Stelle e del populismo piccolo-borghese. Ma non rispondeva alle domande: esiste ancora il proletariato? E come vive, cosa pensa? Non fu facile spiegare che questi giovani «operai», che rifiutavano anche solo l’idea di indossare le scarpe antinfortunistica fornite dalla ditta perché gli facevano schifo esteticamente, che si facevano tutti almeno un paio di lampade la settimana, che si indebitavano per comprarsi una Golf Tdi del cavolo, o per passare un paio di settimane in uno spermodromo caraibico, che passavano i fine-settimana tra discoteche e after hours, spesso e volentieri impasticcati, la cui stragrande maggioranza si professava e votava a destra, fossero irrimediabilmente estranei a quella sua immagine così arcaica da potersi considerare parte non dell’archeologia, ma della paleontologia industriale.
È un brano di Works di Vitaliano Trevisan (1960-2022). Splendido, raro esempio di «letteratura vera», giustissima per stile e per fedeltà alla vita, quel tipo di lettura cui non smetti di pensare mentre fai altre cose o di notte quando hai l’insonnia, perché senti che per qualche ragione ti riguarda. Nella forma di un’autobiografia disperata e cupa (l’autore si è suicidato pochi anni dopo la sua pubblicazione nel 2016), è uno straordinario reportage sociale, del genere più attendibile perché vissuto sulla propria pelle, non per curiosità o desiderio di espiazione del privilegio, ma per necessità. Costretto a lavorare fin dall’adolescenza, Trevisan in quarant’anni ha fatto di tutto: muratore, spacciatore, gelataio in Germania, apprendista designer in un famoso studio di Vicenza, progettista di cucine, magazziniere di cuscinetti a sfera, corriere per orafi, impiegato del comune, sceneggiatore e, ovviamente, scrittore. Il suo è un giro completo del mondo sociale, ma ha i suoi momenti più intensi quando incontra il neoproletariato del Nord Est, l’equivalente italiano dell’elettorato di Trump: maschi bianchi, in prevalenza veneti, tatuati come gli avanzi di galera che talvolta sono, parlano in dialetto bestemmiando ogni due parole.
Sfruttati, pagati spesso in nero, sfiancati dal lavoro fisico, pranzano in tavolate nelle trattorie a prezzo fisso, nel tempo libero vanno in discoteca o a prostitute; politicamente scorretti, rancorosi verso le donne che prima di accettare un invito cercano di capire quanto guadagni dal mazzo delle chiavi della tua macchina, razzisti oltre che misogini, ma sempre pour cause: e questo fa tutta la differenza, perché permette di capire meglio, non certo di giustificare. Trevisan ricorda con particolare rispetto la sua esperienza coi lattonieri, gli operai specializzati in lamiera metallica: vivono sui tetti e sviluppano la solidarietà di classe elementare, che nasce quando si rischia tutti i giorni la vita, e la tua dipende da chi ti terrà la cinghia al momento giusto.
Ma non c’è alcun romanticismo nel suo racconto. Il suo sguardo non è quello di Pasolini: non idealizza la povertà ma la odia. Non comunica nemmeno una qualche morale che vada al di là del senso di esasperazione. A emergere dalle sue pagine è semplicemente la descrizione realistica, cioè vera, di un mondo violento, carico di contraddizioni, di aspetti odiosi e inaccettabili, sgradevole come la puzza di sudore più volte evocata nel libro, ma che deve essere assolutamente compreso da chi aspira a cambiare la società nell’interesse degli ultimi. Questa è la realtà, baby. Works è il rimprovero che deve tormentare la coscienza felice della sinistra. Bisognerebbe renderne obbligatoria la lettura: un corso di aggiornamento per politici smarriti.
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