È scontro fra gli etnonazionalisti della prima ora e i tecnopopulisti di Elon. Crescono i dubbi sulla missione del Doge, al via le audizioni al Senato
Ogni giorno la guerra civile fra vecchi e nuovi trumpisti si arricchisce di nuovi scontri e occasioni di dissenso, consolidando l’impressione che quella che appare come una falange politica compatta sia in realtà un instabile agglomerato di tribù in collisione fra loro, tenute insieme per il momento solo dalla forza inerziale generata dalla vittoria del 5 novembre. Più si va avanti, più si vedono le crepe.
Nei giorni dell’apocalisse di fuoco a Los Angeles tutti sono impegnati nel trovare qualcuno a cui dare la colpa del disastro, ma intanto le devastanti parole che Steve Bannon ha riservato a Elon Musk, parlando con il Corriere della Sera, hanno aggiunto tensione nel turbolento universo trumpiano.
L’ex stratega di Donald Trump, uscito malamente dall’orbita d’influenza e poi finito nel disdoro, fra condanne penali e irrilevanza politica, ha detto che la sua attuale missione è impedire al tycoon di origine sudafricana di fare quello che sta già facendo, cioè dettare la linea al presidente eletto su qualunque cosa. «Otterrò che Elon Musk sia cacciato via entro l’insediamento», ha detto Bannon, spiegando che «è una persona davvero malvagia» che promuove politiche «razziste».
Quello di Bannon è il secondo episodio di una serie iniziata nei giorni di Natale, quando Musk ha fatto il suo appassionato endorsement al programma di visti H1-B, che consente l’ingresso negli Stati Uniti a un numero limitato di lavoratori altamente qualificati, spiegando che non sarebbe arretrato di un passo sulla questione.
Due filosofie
Il gruppo dei vecchi consiglieri etnonazionalisti si è infuriato all’istante per quella che giudica una vergognosa e globalista apertura delle frontiere, un spregio alla filosofia America First, e in effetti Trump nel suo primo mandato ha tagliato drasticamente i visti H1-B e ora ha nominato come punto di riferimento per le politiche migratorie Stephen Miller, già uomo chiave del primo mandato e oppositore di qualsiasi apertura migratoria.
Musk ha risolto la disputa aspettando strategicamente l’intervento di Trump, che dopo alcuni giorni di silenzio ha dato ragione al suo nuovo braccio destro, cosa che ha mandato in bestia i custodi della vecchia ortodossia. L’eroina dell’ultradestra Laura Loomer ha attaccato Musk e insieme a un gruppo di una quindicina di attivisti conservatori ha accusato il magnate del comportamento più infamante: averli censurati su X, togliendo proditoriamente lo status di utente verificato e perciò di fatto escludendoli dalle scelte dell’algoritmo.
È stato l’inizio di uno scontro fra due filosofie MAGA destinato ad accompagnare il prossimo mandato. Da una parte, i nazionalisti tutto muri, dazi e valori pseudo-cristiani; dall’altra i tecnopopulisti che vogliono rendere l’America di nuovo grande superando gli altri competitor globali con la forza di innovazione e mercato, anche importando i migliori talenti del mondo.
I primi vorrebbero un ripiegamento totale entro i confini nazionali, mentre i secondi promuovono quella specie di confusa riedizione della dottrina Monroe che ha indotto Trump a minacciare l’invasione della Groenlandia, l’annessione del Canada, la riconquista del canale di Panama, e via dicendo.
Il re e l’imperatore
Al centro dello scontro ci sarà anche il lavoro di Musk e Vivek Ramaswamy su Doge, la nuova agenzia nata per ridurre la burocrazia federale, efficientare i processi, razionalizzare i meccanismi degli apparati. Fra le idee che l’uomo più ricco del mondo sta valutando c’è quella di assumere su base temporanea e volontaria consiglieri del mondo della tecnologia – per lo più legati a sé e a Peter Thiel, altro grande influencer trumpiano – a i quali chiederà di lavorare 80 ore alla settimana.
L’impatto di così tante menti così intensamente dedicate allo scopo sarà quello che imporrà il «cambiamento drastico» di cui l’America ha bisogno, secondo Musk, e che però è permeato da un’atmosfera libertaria che è estranea al vecchio Maga. Quando Bannon durante il primo mandato ha annunciato la «decostruzione dello stato amministrativo», un pallino dei conservatori dai tempi di James Burnham, non aveva certo in mente un’operazione condotta dai guru della Silicon Valley convertiti per l’occasione alla causa del Partito repubblicano.
E c’è anche una questione di sostanza politica da considerare. Se nel primo mandato di Trump il provvedimento simbolico fondamentale per gli oltranzisti MAGA era la costruzione del muro al confine con il Messico, nel secondo mandato è il rimpatrio coatto degli 11 milioni di clandestini che vivono negli Stati Uniti.
Questo è quello che vogliono innanzitutto i trumpisti di rito bannoniano. Soltanto che si tratterebbe di un’operazione di polizia di proporzioni ciclopiche, cosa che necessiterebbe di enormi risorse, potenti apparati delle forze dell’ordine e relativa burocrazia; insomma, per portarlo a termine serve tutto ciò che Musk sta lavorando per smantellare. La composizione finale del governo di Trump darà più indicazioni sullo scontro fra questi due gruppi Maga.
Martedì 14 gennaio iniziano le audizioni al Senato dei segretari, e si parte dalla più complicata quella di Pete Hegseth, nominato per la guida del Pentagono, uno che tende a simpatizzare per la vecchia scuola trumpiana. Nell’attesa, il presidente eletto ha chiarito in questa transizione quali sono, almeno per il momento, i ruoli fondamentali: lui fa la parte del re, Musk quella dell’imperatore.
Trump riceve ospiti circondato dalla corte di Mar-a-Lago, elargisce favori, fa accordi, riceve inchini e baci della pantofola. Musk dà indicazioni sulle province dell’impero, detta la linea elettorale agli altri paesi, attacca i governi avversari, fa sogni sulla nuova rotta artica e intanto usa i cybertruck di Tesla per portare internet nel mezzo dell’inferno californiano.
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