le altre voci da Evin. Speranza per i detenuti francesi

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Nahid Taghavi, liberata dopo 1.500 giorni di prigionia – ANSA

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«Le forze ci stanno venendo meno, fate presto». È l’appello (disperato) di Olivier Grondeau, 34 anni, uno dei tre francesi detenuti nel carcere iraniano di Evin. Lo ha rilanciato, oggi, il canale France Inter condividendo con il pubblico il passaggio di una telefonata alla famiglia risalente al 19 dicembre, lo stesso giorno in cui fu arrestata Cecilia Sala. Perché farlo uscire adesso? L’idea che circola Oltralpe è che le trattative tra Parigi e Teheran possano calcare la via verso la libertà aperta dalla giornalista italiana. A lubrificare con l’ottimismo la macchina della diplomazia c’è anche il ritorno a casa, a Berlino, della tedesca iraniana Nahid Taghavi, rilasciata dal regime iraniano, domenica, dopo 1500 giorni di detenzione.

Fino a oggi, l’identità del cittadino francese nelle mani di Teheran era protetta. Si sapeva solo che affollava “il bazar” dei prigionieri stranieri di Evin insieme ad altri due francesi: Cécile Kohler e Jacques Paris, marito e moglie, ex insegnanti, arrestati a maggio 2022 durante un viaggio in Iran per «spionaggio». Questa è l’accusa che pende anche sulla testa di Olivier Grondeau, amante delle letteratura persiana, arrestato tre anni fa, a ottobre, durante una visita a Shiraz, tappa del suo giro per il mondo, e condannato a cinque anni. Gli amici e la madre, Thérèse Grondeau, intervistati anche da France Info, hanno lasciato intendere che era arrivato il momento di rompere l’anonimato, scelto dallo stesso Olivier per evitare l’isolamento, per intensificare la pressione diplomatica. A farne da cornice ci sono, tra l’altro, i negoziati ripresi proprio oggi in Svizzera.

Nessuno sa quanti sono esattamente gli stranieri in cella a Evin: potenziali “ostaggi di Stato” da scambiare in caso di necessità. Nahid Taghavi, oggi 71enne, fu arrestata a Teheran nell’ottobre del 2020 e condannata a dieci anni e otto mesi di carcere per «appartenenza a un gruppo fuorilegge» e «propaganda». Era finita nel mirino delle autorità islamiche per vecchi post social legati al suo attivismo per i diritti delle donne. L’appello per la sua liberazione si è intensificato quando la donna, ex architetto, si è ammalata. Le sono state temporaneamente concesse delle cure fuori dal carcere, in regime di libertà vigilata, ma ha sempre dovuto interromperle per tornare dietro le sbarre. Ha quasi commosso, nel 2023, il grido a lasciarla libera lanciato da una sua compagna di cella, la premio Nobel per la pace Narges Mohammadi: «La sua vita è a rischio». Domenica, Taghavi è tornata a Berlino. «E’ finalmente a casa», ha gioito la figlia Mariam Claren, aggiungendo: «La vostra solidarietà ha contribuito a fare giustizia». A dicembre, anche la sua compagna di cella, Mohammadi, è uscita di galera per curarsi. A lei, tuttavia, sono stati concessi 21 giorni di libertà. L’inferno di Evin l’aspetta per scontare una pena da 31 anni.

L'attivista curda Pakhshan Aziz

L’attivista curda Pakhshan Aziz – ANSA

Sono poche pure le speranze sulla sorte dell’attivista curda Pakhshan Azizi, 40 anni, arrestata nell’agosto del 2023 per «ribellione armata contro lo Stato» e, a luglio scorso, condannata a morte per impiccagione. La Corte Suprema iraniana ha respinto l’appello presentato dal suo avvocato, Amir Raisian, che, così ha spiegato il quotidiano di Teheran Shargh, ha però promesso l’avvio di un nuovo processo. Azizi è accusata di aver fatto parte di gruppi armati curdi fuorilegge che operano nella regione. Per Amnesty International, la donna è semplicemente un’operatrice umanitaria, attivista della società civile, che dal 2014 al 2022 ha prestato assistenza a donne e bambini dei campi profughi nel Nordest della Siria e nel nord dell’Iraq, sfollati dai territori controllati dallo Stato islamico.

AEvin, questa è la denuncia delle associazioni, ha subito «l’isolamento forzato», oltre che «torture e ad altri maltrattamenti» per costringerla a dichiararsi colpevole. Il processo di cui è stata protagonista è stato «gravemente ingiusto», affidato a magistrati non interessati alle prove sulle sue reali, «pacifiche», attività nei campi profughi. Per lei, in sostanza, il verdetto di morte era già scritto.

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