La verità dei video dell’inseguimento di Ramy Elgaml  – Annalisa Camilli

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Sono da poco passate le quattro di mattina del 24 novembre. Gli ultimi istanti di vita di Ramy Elgaml, un ragazzo di origine egiziana di 19 anni, sono ripresi da una telecamera di sorveglianza del comune di Milano, all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta.

Nel video si vede un motorino con due persone a bordo e una macchina dei carabinieri che lo tallona. Pochi istanti dopo i mezzi vanno fuoristrada, sembra esserci un contatto, il motorino cade a terra e va a sbattere contro un palo. Ramy Elgaml è dietro e cade a terra, l’impatto è mortale. Aveva perso il casco durante l’inseguimento da parte delle tre auto dei carabinieri lungo un percorso di otto chilometri e le forze dell’ordine se ne erano accorte.

Per i legali della famiglia di Ramy Elgaml e di Fares Bouzidi, 22 anni, alla guida dello scooter, si è trattato di uno “speronamento”. Dal principio la famiglia di Elgaml e i suoi conoscenti hanno sostenuto che ci fosse un legame tra l’inseguimento, le azioni delle auto dei carabinieri e la morte del ragazzo. Posizione rafforzata dalla testimonianza di Fares Bouzidi, il ragazzo alla guida dello scooter, che davanti ai pm di Milano ha sostenuto che c’era stata una collisione tra l’auto dei carabinieri e il motorino, prima della caduta.

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La stessa versione è stata riferita da un testimone oculare, un ragazzo che era sul marciapiede all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta al momento dell’impatto, che ha ripreso con il telefono l’incidente. Ma lo stesso testimone ha raccontato che sono stati i carabinieri, scesi dall’auto, a chiedere la cancellazione del video dal telefono subito dopo.

Per questo, due dei tre agenti indagati sono accusati di depistaggio, oltre che di falso, per non avere riportato che l’auto ha impattato lo scooter prima della caduta nel verbale stilato subito dopo il fatto. Il vicebrigadiere alla guida dell’auto è indagato per omicidio stradale, come anche Fares Bouzidi (accusato anche di resistenza a pubblico ufficiale). Da una parte, quindi, i familiari e gli amici della vittima sostengono che l’inseguimento e l’impatto dell’auto dei carabinieri abbia provocato la morte del ragazzo, mentre la difesa sostiene che sia deceduto perché lo scooter è andato fuori strada e si è schiantato.

La novità emersa il 7 gennaio è che anche l’inseguimento è stato ripreso da una telecamera, montata dentro una delle tre auto delle forze dell’ordine. Nel video si ascoltano anche gli audio con i commenti dei carabinieri. Sono molto espliciti. C’è un primo impatto tra una delle auto e il motorino, ma lo scooter prosegue e il carabiniere su un’altra auto commenta: “Vaffanculo, non è caduto”.
“Chiudilo, chiudilo che cade… Merda, non è caduto”, è una delle frasi pronunciate poco dopo dagli agenti, che vedono un’altra delle loro auto tallonare il motorino. Infine, quando l’auto con la telecamera montata a bordo riceve via radio la comunicazione che lo scooter è a terra, il commento di uno dei carabinieri è positivo: “Bene!”, esclama.

I video sono stati acquisiti da subito nel fascicolo dell’indagine sulla morte di Elgaml, aperto dalla procura di Milano a carico di tre carabinieri. Ma sono stati pubblicati solo il 7 gennaio dai mezzi d’informazione italiani, in particolare da un servizio del Tg3, che li ha mostrati per intero. Dopo la pubblicazione dei filmati ci sono state proteste in molte città, e in alcuni casi (come a Roma e a Bologna) si sono verificati scontri con le forze dell’ordine. I manifestanti chiedono verità e giustizia per Ramy Elgaml, e accusano di omicidio i carabinieri che hanno compiuto l’inseguimento.

Il padre del ragazzo, Yehia Elgaml, che aveva chiesto verità e giustizia dopo la sua morte, subito dopo la pubblicazione dei video ha commentato: “È arrivata la verità per Ramy”. “Sono arrabbiato, ma quando è arrivata la verità, Ramy è tornato vivo. Ho fiducia nella giustizia italiana”, ha aggiunto, chiedendo di manifestare pacificamente. Anche la ragazza di Elgaml, Nada Khaled, partecipando alle manifestazioni a Milano l’11 gennaio ha detto: “Vi ringrazio, Ramy è tornato vivo”.

I pubblici ministeri di Milano Marco Cirigliano e Giancarla Serafini, coordinati da Tiziana Siciliano e dal procuratore generale Marcello Viola, stanno analizzando i filmati e sono in attesa della consulenza cinematica affidata all’ingegnere Domenico Romaniello. L’accertamento dovrà ricostruire velocità, dinamica e cause dell’incidente e potrebbe arrivare tra una ventina di giorni. A quel punto la posizione degli attuali indagati potrebbe essere rivalutata: l’ipotesi è che possa venire contestato il reato di omicidio volontario con dolo, al posto di quello di omicidio stradale.

La posizione di altri tre carabinieri è ancora al vaglio degli inquirenti: per loro si potrebbe ipotizzare un concorso morale, in quanto avrebbero pronunciato frasi di incitamento e avrebbero accettato di partecipare all’inseguimento. Il governo ha manifestato solidarietà alle forze dell’ordine, dopo le proteste del fine settimana.

La presidente del consiglio Giorgia Meloni ha commentato: “Non si può utilizzare una tragedia per legittimare la violenza. Alle forze dell’ordine va la nostra solidarietà, insieme agli auguri di pronta guarigione agli agenti feriti. Siamo dalla vostra parte”. Anche il ministro dei trasporti Matteo Salvini ha manifestato il suo appoggio sui social network: “Scene indegne e vergognose. Sempre dalla parte di donne e uomini in divisa!”.

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Aly Harhash, rappresentante della comunità egiziana in Italia, prendendo le distanze dagli scontri ha chiesto ai rappresentanti dell’arma dei carabinieri di fare le condoglianze alla famiglia di Ramy Elgaml. “Dov’è il capo dei carabinieri? Deve essere qui per dare le condoglianze”, ha detto.

Ma la reazione più discussa è stata quella dell’ex capo della polizia Franco Gabrielli, attualmente delegato alla sicurezza del comune di Milano che, dopo la pubblicazione dei video e degli audio dell’inseguimento, ha commentato: “È ovvio che quella non è sicuramente la modalità corretta con cui si conduce un inseguimento, anche perché ci sono pur sempre una targa e un veicolo. Esiste un principio fondamentale: la proporzionalità delle azioni che devono essere messe in campo per conseguire un determinato risultato. Posso addirittura utilizzare un’arma se è in pericolo una vita, ma se il tema è soltanto fermare una persona perché sta scappando, non posso metterla in una condizione di pericolo. È un elementare principio di civiltà giuridica”.

Il capo dell’Unione sindacale militari interforze associati (Umia), Carmine Caforio, attraverso una nota ha espresso “totale disaccordo verso le recenti dichiarazioni di Franco Gabrelli”, aggiungendo che “rischia di delegittimare l’Arma”.

Gabrielli ha anche criticato il governo per le sue politiche securitarie, come il ddl sicurezza: “Non condivido molte delle scelte che hanno un’impronta eccessivamente securitaria come questa proliferazione dei reati e d’inasprimento delle pene, peraltro di un sistema nel quale ormai siamo al collasso”. Tornano alla mente le parole dello stesso Gabrielli sull’operato delle forze dell’ordine durante il G8 di Genova nel 2001.

Quando era a capo della polizia nel 2017, riconobbe che la gestione dell’ordine pubblico a Genova “fu semplicemente una catastrofe” e ammise che “un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite”.

Anche all’epoca ci furono verbali falsi e depistaggi, anche allora ci furono frasi vergognose tra gli agenti in servizio testimoniate da registrazioni audio e video. Ricordiamo tra tutte quella telefonata in cui un’agente commenta l’uccisione di Carlo Giuliani a piazza Alimonda dicendo: “Intanto, uno a zero per noi, yeah”. “Che simpatica!”, risponde l’altro agente al telefono. Anche allora si provò a dire che Carlo Giuliani se l’era andata a cercare, perché aveva un estintore in mano e partecipava agli scontri in piazza Alimonda.

Anche in quel caso i video e gli audio aiutarono a portare alla luce la verità sulla violenza delle forze dell’ordine e su una mentalità ancora molto diffusa in quei corpi dello stato, che individua un nemico senza diritti in chiunque sia ai margini o esprima qualche diversità dai modelli dominanti.

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