Ultimo viene il corvo. Riecheggiando il titolo dell’intenso racconto di Italo Calvino, si potrebbe dire che infine anche BlackRock, il più grande gestore di patrimoni finanziari del mondo (11.500 miliardi di dollari al dicembre 2023), ha deciso di uscire dalla Net Zero Asset Managers Initiative.
Fondata nel dicembre 2020, questa alleanza di oltre 325 gestori di risparmi con un totale di asset gestiti di 57.500 miliardi di dollari, nasce per supportare l’obiettivo dell’Onu dell’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050, in linea con l’obiettivo della Cop di Parigi di limitare il riscaldamento globale entro 1,5°C. Negli ultimi mesi da questa e da altre alleanze globali per la neutralità climatica, sono usciti molti grandi gruppi finanziari: JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Morgan Stanley, Wells Fargo, Goldman Sachs. BlackRock è stata accusata di avere un atteggiamento negativo nei confronti delle grandi aziende delle fossili americane. D’altra parte il Texas e altri 10 Stati americani a guida Repubblicana avevano già fatto causa a BlackRock per aver portato avanti “un’agenda ambientale distruttiva e politicizzata” contro l’industria delle fossili.
Via dalla sostenibilità, cui prodest?
Che cosa ci dice questa Grande Fuga dalla sostenibilità, che per ora riguarda i grandi gruppi americani, ma che crediamo che presto coinvolgerà anche gruppi di altri paesi, anche europei.
In primo luogo che le major degli investimenti erano e sono in realtà rappresentanti di una finanza “opportunistica”. Semplicemente e banalmente, nel quinquennio precedente c’era un vento che spirava – anche negli Usa, ma più in generale in tutto il mondo – a favore della transizione energetica, spinto dalle preoccupazioni per la crisi climatica, dalle risultanze ormai unanimi dai più autorevoli studi scientifici, dagli accordi fra i paesi nelle varie Conferenze delle Parti dei paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, dalle opinioni pubbliche e, non ultima, dall’Unione Europea. A questo vento i grandi investitori globali e le banche hanno aderito, forse non tanto per convinzione ma certamente per convenienza. In questo impegno per la riduzione della Co2 in atmosfera, questi grandi gruppi finanziari hanno cercato solo una nuova fetta di mercato. Così, man mano che crescevano preoccupazione e attenzione dell’opinione pubblica per il riscaldamento globale e gli eventi estremi, la grande finanza mainstream ha scelto di entrare con una parte dei patrimoni gestiti (lo 0,86% diceva BlackRock) nel mondo della sostenibilità, i fondi costruiti con criteri Esg. Un’opportunità da cogliere, spendendo peraltro non pochi soldi nella comunicazione. A un certo punto, il vento inizia a soffiare in senso opposto. Le elezioni del Parlamento europeo ci consegnano un parlamento decisamente più spostato a destra.
Gli armamenti in tassonomia
E così, complice la guerra in Ucraina, inizia un pressing sulla Commissione per inserire nella Tassonomia della finanza sostenibile il settore degli armamenti (dopo aver già inserito, negli anni passati, il gas naturale e il nucleare, certo fonti non rinnovabili), addirittura pretendendo di farci credere che gli armamenti costituiscono un asset ad alto valore sociale. Per questo pressing è stato messo in campo addirittura Mario Draghi.
In questo scenario, la lotta al cambiamento climatico attraverso la transizione energetica ha già perso la sua priorità nell’agenda politica dell’Unione Europea. La formazione della Commissione Europea di Ursula von der Leyen è stata resa possibile anche grazie ai voti dei parlamentari del Gruppo dei Conservatori Europei (Ecr), di cui è leader Giorgia Meloni. Poi, le elezioni americane hanno riportato alla Casa Bianca Donald Trump e il suo gruppo dirigente Repubblicano, noti per la loro fede negazionista del cambiamento climatico. Da entrambe le sponde dell’Atlantico è partita una campagna tesa a far passare l’idea che la transizione energetica avrebbe messo in crisi il settore automotive e il settore delle fossili, con conseguente perdita di posti di lavoro.
La politica conta ancora
Ma questo atteggiamento opportunista della grande finanza americana ci dice anche qualcos’altro: cioè che la politica non è così secondaria o subalterna alla grande finanza. Al contrario: la politica non è irrilevante. Essa condiziona la finanza e guida la direzione dell’economia, dello sviluppo, del mondo.
È vero che è una politica ibridata dalla finanza, basti pensare alla coppia Trump (prima di tutto un uomo d’affari) – Musk (che si comporta scopertamente da politico). Ma anche alle giravolte di Zuckerberg in questi giorni, leggibili solo come uno sgraziato e per certi versi patetico modo per ingraziarsi il nuovo padrone del vapore (compresa la donazione dell’elemosina di 1 milione di euro per la cerimonia dell’insediamento). Per qualche decennio si è detto che ormai a dettare l’agenda del mondo fosse la grande finanza, cioè un potere anonimo e per molti versi oscuro, comunque sottratto alle procedure democratiche tipiche della politica. Era così, credo, perché effettivamente le leadership di centro o di centrosinistra in America e nei paesi dell’Occidente erano sfinite, prive di un pensiero proprio sulla nuova fase inaugurata dall’accelerazione dei processi di globalizzazione e distaccate ormai irreversibilmente dalle proprie radici e dalle classi sociali che per un secolo avevano rappresentato. Leadership sul viale del tramonto alle quali la Grande Finanza sussurrava nelle orecchie il da farsi, risultando così questi i veri guidatori della locomotiva. Ma oggi sta assurgendo al potere una nuova classe dirigente, apertamente di destra, portatrice di una propria visione del mondo che, intanto, si nutre della demolizione delle antiche narrazioni. È così ovunque in Occidente, negli Stati Uniti come in Australia e in Europa (a partire da quella che è stata per quasi 70 anni compresa nell’orbita d’influenza sovietica): Ungheria, Slovacchia, Polonia, poi Italia, Grecia, Austria e dopo sarà la volta della Germania e chissà quali altri ancora. Si tratta di un ciclo politico nuovo, che si nutre certo di antichi stilemi del ventennio del secolo scorso, ma che trova nelle nuove povertà e nelle nuove ricchezze sostenitori bipartisan.
Il cambio di fase compreso dalla Grande Finanza
La Grande Finanza ovviamente ha compreso questo cambio di fase (qualcuno in anticipo come Musk (con Trump nella foto di apertura, di Brandon Bell/Pool/Ap/LaPresse), altri con ritardo e ora sono di rincorsa, come Zuckerberg e Larry Fink) e accetta di stare al traino purché vengano garantiti i dividendi di questo nuovo clima. Il problema è che la durata e i ritmi della politica non potranno sfuggire a una forza più grande di essa, cioè gli effetti dei cambiamenti climatici che sconvolgono gli assetti ecologici, le condizioni di vita della razza umana sulla terra (con velocità che aumenta esponenzialmente una volta che sia iniziata la discesa sul piano inclinato) e, infine, anche le sorti della finanza. Stiamo già assistendo alla crisi di una delle componenti più aggressive della finanza mainstream degli ultimi decenni, cioè quella delle assicurazioni, trasformatesi sempre di più in agenti finanziari orientati al business invece che alla considerazione dei rischi e alla tutela dei sottoscrittori. Ma subito dopo toccherà ai grandi fondi finanziari che, per un po’, potranno ancora scommettere sugli antichi players costituiti dalla grande impresa delle fossili (molto più ramificata e pervasiva di quanto non si sia disponibili ad ammettere) e sul “nuovo” settore degli armamenti (spinti dai conflitti, generati anche dai cambiamenti climatici e dalla corsa all’approvvigionamento delle risorse) che però è troppo piccolo e autodistruttivo per promettere gli ampi dividendi a cui la Grande Finanza è abituata e di cui ha bisogno per autoriprodursi. Ma poi gli effetti della crisi climatica produrranno più perdite che guadagni e anche i fondi di private equity ne saranno colpiti.
Dunque, possiamo certamente convenire che la fulminazione sulla via di Damasco della sostenibilità sia stata per la Grande Finanza più un’operazione di greenwashing che una sincera conversione. E tuttavia essa coglieva almeno una ineludibile necessità che avrà vita più lunga di un mandato presidenziale americano, che invece ora – per forse un decennio – verrà smarrita. D’accordo, i fondi sostenibili di BlackRock per lo 0,86% erano poca cosa rispetto a quelli grigi per il 99,14% ma, oltre a essere complessivamente più di quanto tutti gli altri più sinceri e veri investitori istituzionali sostenibili potevano fare, lasciava almeno aperta una strada. Oggi, invece, restano in campo solo i veri investitori etici e sostenibili che, abbandonati dalla politica, dovranno riprendere a svolgere la loro funzione originale: continuare caparbiamente a percorrere un sentiero alternativo, in attesa che si comprenda che il tempo e la direzione non sono in ultima istanza dettate né dalla Grande Finanza, né dalla Politica, bensì dal Pianeta.
Simone Siliani è direttore della Fondazione finanza etica di Banca etica.
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